Le vicende di una lama attraversano tutta la storia dell’umanità, dalla civiltà sumerica alle guerre moderne e diventano spunto per una riflessione problematica sul tema del male, della illusoria distinzione fra vincitori e vinti, sulla responsabilità dell’uomo nel compiere le scelte decisive per sé e per gli altri. La serie di storie, che fanno del racconto un grande mosaico narrativo, è ben orchestrata, condotta con uno stile sicuro: l’incalzare degli eventi sostiene la lettura e contribuisce a creare un’atmosfera avvincente. Per queste sue qualità il racconto è classificato al terzo posto. (Motivazione del premio)
IL PREZZO DELLA VITTORIA
Di Serena Andreucci
Liceo Scientifico Nicolò Copernico – Udine
2D
-Giacomo, non fermarti davanti a quella teca, vieni qui, ci sono le pistole!- esclamò la donna al figlio che si era fermato davanti alla mia teca. Subito il bambino le ubbidì con l’aria ancora sognante di chi è perso nelle sue fantasticherie. Ma come dargli torto? In confronto a me, anche la più semplice e arrugginita delle rivoltelle avrebbe fatto un figurone. Eppure, prima delle armi da fuoco, la storia ha visto millenni di guerre combattute con spade e bastoni. Quei pensieri mi trascinarono nel vortice sterminato e infelice che era stata la mia vita.
A poco a poco un viso smunto, cianotico e provato cominciò a farsi strada tra i pensieri confusi che mi affollavano la mente e io mi arresi a quei ricordi. Quel volto era quello di Nissanu, il mio creatore. Aveva una piccola fucina non troppo distante da Uruk e amava il suo lavoro. Fin dal primo colpo di martello comprese che ciò che stava creando celava pura malvagità ma non riuscì a lasciarmi incompleto e fu soddisfatto solo quando raggiunsi la perfezione. Ero un meraviglioso coltello, capace di accendere la bramosia di potere e il desiderio perverso di uccidere in chi mi ammirava o sperava di possedermi. La lama nera diorite, a doppio taglio, era lunga come un avambraccio, mentre l’impugnatura, in oro, tempestata di minuscole pietre preziose, era statabilanciata per una mano possente e una presa sicura.
Dopo la morte di Nissanu passai di mano in mano, vissi tra guerre per il potere e scontri privati. Più e più volte la mia lama si macchiò del sangue di innocenti e altrettante di quello sporco e colpevole di tiranni e corrotti. Mai una volta il guerriero che mi stringeva nel pugno fu colto da esitazione o venne sconfitto in battaglia, ma su di lui e sui suoi cari si abbattevano sempre disgrazie e sventure… Mentre vagheggiavo nei ricordi, un ticchettio sul vetro della teca che mi conteneva, mi richiamò alla realtà. Erano le dita di una bambina che stava chiedendo alla madre di raccontarle la mia storia. Questa volta volevo essere io a narrargliela, per ,farle capire che la vita non era rosea come le favole che legge la sera. La realtà è grigia, anzi, rossa, rossa e viscosa come il sangue che è stato sparso senza motivo nel corso di millenni e che ho contribuito a versare. Ancora una Volta il passato mi riportava indietro, secoli dopo la mia creazione, quando ormai la mia lama era stata più volte riaffilata e il mio manico riadattato per essere più maneggevole.
Ero a Troia, nel VI sec a.C. A quel tempo ero la fedele arma dell’eroe più valoroso che la storia greca possa vantare. Soldato intrepido, stratega geniale, uomo d’onore e, nonostante ciò, responsabile della scomparsa di una civiltà intera. Odisseo mi aveva trovato sulla spiaggia di Troia la prima sera dopo lo sbarco, quando, assieme ai suoi compagni, stava dando fuoco alle pire dei soldati caduti. Combattei quella guerra assieme a lui e non c’era lama troiana in grado di sconfiggerci. Dieci anni dopo, la mia maledizione tornò. Le urla dei Teucri, svegliati nel mezzo del sonno dalla signora con la falce per una chiamata senza appello, mostrarono a Odisseo la mia essenza e, quando la città dalle alte mura divenne cenere, egli mi scagliò nell’ultimo focolare, nella speranza che il fuoco che mi aveva creato mi distruggesse. Ma io sopravvissi. Nei secoli successivi passai da mercante a soldato, senza mai perdere il mio potere e la mia brama di morte. Ovunque andassi lasciavo uno sconfitto a piangere innumerevoli morti, e un vincitore a fronteggiare enormi difficoltà. Io ero presente ovunque ci fosse uno scontro degno di memoria storica, a decidere vincitori e vinti, a gettare entrambi nello sconforto ed ero sempre io che venivo abbandonato, alla fine, per essere distrutto. Ma ciò non avveniva mai. Raggiunsi persino la Cina, al fianco di Marco Polo, in una delle mie versioni più spettacolari. La lama, sempre lunga e letale, era stata placcata e incisa con ideogrammi di forza e longevità, mentre l’impugnatura era stata sostituita con una in osso. Restai in Asia per lungo tempo, per poi attraversare l’Europa e finire in mano agli spagnoli, i quali, non comprendendo il mio potere, mi trasformarono in uno spadino di mediocre fattura. Nonostante ciò, ebbi la fortuna di partecipare a uno dei viaggi dagli esiti più inaspettati della storia: capitanai la Santa Maria con Colombo. L’attraversata fu lunga e molti morirono di fame, ma il 12 ottobre 1492 qualcuno gridò: “Terra!”. Giunti a riva iniziammo subito a perlustrare la zona, che presto apprendemmo essere abitata da indigeni fin troppo pacifici. Quella loro calorosa ospitalità gli costò cara quando, qualche tempo dopo, tornai nel Nuovo Continente al fianco di Hernan Cortes. La politica dei conquistadores era una e una sola: nessuna pietà. Fui utilizzato per migliaia di esecuzioni, ma ben presto furono la peste e il vaiolo a far strage di nativi. L’animo di Hernan era così sadico che mi vedeva come una benedizione, non come un fardello e pertanto mi tenne con sé fino alla sua morte.
Mentre andavo indietro nel tempo un rimbombo sordo risuonò nel la mia teca e sottraendomi al ricordo di quei fatti orribili. Era un’altra turista che mi osservava. Stavo per archiviare quell’insolita dimostrazione di interesse quando incrociai il suo sguardo. Intenso e deciso, dava quasi l’impressione di essere in grado di leggerti dentro. Ma sapevo che era solo inutile apparenza. La mia anima mi era ben nota. Un deserto di morte e disperazione che recava con sé i lamenti di quelli che erano caduti a causa mia. Sullo sfondo di tanta desolazione, però, brillava debole e incerta una minuscola stella. Quello era il mio unico ricordo limpido, l’unico in cui a reggermi era stata una mano pallida, piccola e dalle dita affusolate. Erano gli anni ’80 del XIX secolo, dopo una breve sosta nell’impero Ottomano, ero giunto nuovamente alla corte dell’imperatore Cinese. Rimasi sbalordito quando trovai una donna in veste di sovrano assoluto Cixi aveva subito stoicamente molte perdite e aveva dimostrando la forza e la fermezza che ogni monarca dovrebbe avere. Quando la vidi per la prima volta la solitudine che la affliggeva era talmente radicata da essere visibile in quelli che, un tempo, dovevano essere stati due occhi vivaci e speranzosi ora ridotti a due buchi neri privi di sogni e straripanti di doveri. Non so cosa la spinse a tenermi con lei, né perché decise di restaurarmi di persona. Quello che posso affermare per certo è che, davanti a quella donna così altruista, il mio egoismo e le mie gesta mi apparivano per la prima volta per quello che erano: ingiustificabilmente atroci. Volevo fare qualcosa di buono, non perché credessi di potermi redimere, ma per ringraziarla di avermi fatto aprire gli occhi. Mi portava sempre con sé, mi confidava i suoi segreti e le sue avventure passate, mi svelava i suoi sogni e le sue paure. Io ascoltavo e mi immedesimavo in lei senza però riuscire a capire come facesse a essere la donna straordinaria che era senza essere schiacciata dal peso che si portava sulle spalle. Ero la quinta essenza del male e lei mi ripagava donandomi l’amore di cui non mi ero mai reso conto di aver bisogno. Mi insegnò che, se l’odio, l’egoismo e la cupidigia possono rendere l’impossibile una cosa da nulla, l’amore, l’affetto e la riconoscenza sono in grado di ridare un valore inestimabile a un animo corrotto. Alla morte di Cixi e con questo insegnamento tornai in Europa. Ormai troppo addolorato da essere indifferente a ciò che mi capitava attorno.
Io c’ero. Io ho visto Sarajevo, il Nazismo, Hiroshima.
Io sono la causa di tutto ciò che oggi ho ricordato e di quello che, fortunatamente, sono riuscito a tenere nascosto. Se l’uomo l’unico animale a non essere in grado di imparare dai propri errori e li ripete fino a che ormai è troppo tardi per tornare indietro; se gli spargimenti di sangue continueranno; se i vincitori conteranno le proprie perdite così come i vinti, ebbene la causa sono io. Io, che ora attendo nell’ombra e lascio che mi ignorino, sono certo che arriverà qualcuno talmente accecato dalla brama di violenza da scordare che il potere che gli darò avrà un prezzo molto più salato di quello che chiunque sarebbe disposto a pagare. Io, infatti, nulla posso contro il più meraviglioso e letale dei doni che abbiamo ricevuto: la capacità di scegliere.