IL FILO DELLA VITA

di Gloria Deiuri
LICEO GRIGOLETTI PORDENONE
1942.

Cosa cuce un filo? Tante vite, tante speranze, tanti sogni … li unisce o li distrugge per sempre? Ho il filo della mia vita tra le mani.

Chalom guarda fuori dalla finestra, cosparsa dalle ceneri della guerra, una guerra che sembra non trovare mai tregua, sempre alla ricerca del confronto, del controllo supremo sulla gente, che distrugge le vite di migliaia di famiglie e uomini chiamati alle armi.
Il bambino stringe tra le piccole mani scarne un piccolo quaderno, dove annota regolarmente i suoi pensieri, i suoi gridi silenziosi di speranza per un futuro migliore di quello che lo aspetta.
“Vai a dormire Chalom, è tardi”.
“Tra un attimo mamma”, risponde lui rivolgendomi uno sguardo distratto, poi si avvicina a me, avvolge le sue esili braccia attorno al mio collo: “Buonanotte”, gli sussurro strofinandogli i ciuffi biondi che sembrano non voler mai stare al proprio posto.
Il bambino si allontana, verso il mondo dei sogni: sa che almeno lì potrà trovare la pace e la felicità che da anni non coglie più sui volti delle persone che lo circondano.

Non rimane che la luce debole di uno dei tanti giorni talmente uguali da risultare indistinguibili. Decido di rimandare il lavoro di cucito all’indomani e mi avvicino alla stessa finestra vicino alla quale Chalom trascorre intere giornate a immaginare il momento nel quale tutto tornerà finalmente come prima.
Appoggio la casacca sulla sedia instabile di legno e mi inginocchio cercando di fare meno rumore possibile, per riuscire a raccogliere il quadernino su cui mio figlio, con scrittura ancora incerta, lascia il segno dei suoi sogni, delle sue preoccupazioni, dei suoi ricordi.
“Spero di poter rivedere presto il mio amico David, per giocare assieme a pallone. Mi chiedo se anche ai soldati piacerebbe di più afferrare una palla, piuttosto che un fucile”, leggo, prestando attenzione a ogni singola parola.
Una lacrima si fa strada sulla mia guancia, inumidendola appena.
Ripongo la forbice, con la quale stavo ritagliando la stoffa della giacca, sul tavolino. Quella forbice sta tagliando il filo della vita di centinaia di persone.

Ripenso nel frattempo alle parole di Chalom: ciò che mi chiedo io, invece, è a cosa pensano i soldati, quando devono impugnarlo, il fucile. A cosa pensano i sostenitori del regime, che hanno saldamente in pugno le vite di così tanti uomini, donne, bambini.

Un’esplosione nel cuore della notte, seguita da urla di dolore; sono scene di quotidianità, che cerco di coprire con il velo dei miei ricordi, di quando ancora ero una bambina.
Vado alla ricerca dell’immagine sfocata dei miei genitori nei cassetti disordinati della memoria e riesco, seppur per poco tempo, a ottenere un momento di lieto vivere.

Seconda esplosione. Hanno portato via anche loro mentre cercavano di scappare verso la salvezza. Mio padre e il suo istinto rivoluzionario hanno tentato di convincere anche me.
Perché io li ho lasciati andare? Perché non li ho costretti a rimanere con me e Chalom, per riuscire a trovare un posto sicuro?

Terza esplosione. È l’amore a rendere il filo più resistente, grazie a questo forse abbiamo qualche aspettativa in più di poterci salvare. L’amore di un padre, di un figlio, nutrono le speranze di poter raggiungere la fine di tutto questo dolore, prima che sia troppo tardi.

Afferro la forbice nella mano sinistra, mentre il sole di maggio rivela il risultato della carneficina avvenuta la notte prima: tutto ciò che resta di una battaglia tra uomini è qualche corpo esanime sulla terra, tempestata da piccoli crateri, segni indelebili dell’inizio della fine.
Un soldato cammina, facendosi strada tra le anime private del dono più grande loro concesso: la vita. Ha gli occhi vitrei, il viso pallido e lo sguardo spento. Potrà anche parteggiare per chi vuole continuare a uccidere, ma osservandolo si può notare come anche lui, in fin dei conti, sa che la guerra è ingiusta.
Tutto d’un tratto, un uomo appare davanti a lui, correndo disperatamente. Cerca un rifugio o forse semplicemente si è arreso, inerme, davanti alla battaglia. Oppure è stato privato dell’amore.
Corre, fronteggiando il suo destino. Corre senza fermarsi un secondo. Ha una stella gialla cucita sul petto della camicia logora.
Uno sparo.

Ritaglio con accuratezza gli angoli del tessuto, la lama appuntita traccia un percorso lineare, fino a quando incontra un avvallamento, all’altezza della tasca superiore della giacca. Tastando riesco a trovarci all’interno una foto. È in bianco e nero: ritrae un uomo, sorride, affiancato dalla donna alla quale salvò la vita. La divoro con gli occhi malinconici di chi ha perso una parte di sé. Si può vivere senza una metà del proprio cuore?

Chalom si è svegliato e con gli occhi assonnati mi raggiunge: “Perché piangi, mamma?”, mi domanda con un filo di voce. “Non sto piangendo”, rispondo con un finto sorriso, ma lui continua, chiedendomi “allora perché hai gli occhi così lucidi e la pelle umida?”.
“È il peso dei ricordi, Chalom. Quando ti viene in mente una persona alla quale hai voluto molto bene e non c’è più o hai malinconia di un bel momento passato.”
“Ma ce ne saranno altri di bei momenti che trascorreremo assieme, vero?”, aggiunge prontamente.

Ho lasciato Chalom da solo a fare colazione. Per fortuna abbiamo abbastanza riserve con cui provvedere alla nostra sopravvivenza ancora per un po’ di tempo.
Nel suo sguardo rivedo suo padre: gli assomiglia, è come se quella parte del mio cuore svanita sia conservata nel bambino, grazie alla sua presenza nella mia vita.
L’estrema attenzione che presta ai dettagli, il suo modo di guardare le cose che lo circondano, di essere curioso e non accontentarsi, sono alcuni degli aspetti che ha conservato di mio marito.
Di me? Forse il suo essere sensibile, che può considerarsi sia un pregio che un difetto al tempo stesso.
Tuttavia, non ha mai versato una lacrima, non si è mai scomposto davanti a tutte le difficoltà e gli ostacoli che abbiamo incontrato. Una guida, la mia luce in fondo a un tunnel, dal quale non sono neanche sicura ci sia un’uscita.
Un rimpianto affiora dentro di me, si fa largo attraverso le membra, fino a bloccarmi il respiro: il non poter fare nulla per farlo vivere in uno scenario migliore, in cui le bombe siano sostituite da sorrisi e i fili della vita delle persone tessuti con la materia dei sogni.

La forbice divide gli estremi del tessuto, che non si ricongiungeranno mai più.
Presto molta attenzione, senza distogliere lo sguardo dal distintivo che devo applicare. Migliaia di vite facilmente individuabili.
Un taglio, sulla punta dell’indice, mi fa interrompere il lavoro, ancora inconcluso, ma ormai è tardi e una goccia di sangue scarlatto si è adagiata sul tessuto ruvido, delineandone le cuciture.
Si forma una macchia, a testimoniare il mio dolore.

Sacrificare la propria vita per salvarne altre significa essere un eroe. Ricordo il giorno in cui lo hanno portato via. La sua voce che ci intimava di scappare, di raggiungere quella soffitta al sicuro, o saremmo morti tutti e tre.
Aveva lo sguardo di chi decide di far rivivere se stesso nel corpo di chi ama, attraverso la mancanza.
Loro, invece, avevano lo sguardo crudele di chi decide di togliere l’amore dal cuore degli uomini, di voler ottenere tutto, anche le loro vite.
E così siamo qui, da quasi un anno, io e Chalom, a vivere di desideri che si perdono tra le esplosioni delle bombe e ad attendere un futuro migliore, lasciandoci ingannare da ciò che potrebbe accadere, ma non accadrà.

Chiudo gli occhi, riprendo la forbice tra le dita ossute e con tutta la forza che ho, inizio a cucire. Un punto dopo l’altro, sento il mio cuore accelerare il battito.

Chalom è sempre più esile. Si potrebbe definire un fantasma vivente, che vaga per un luogo nel quale non avrebbe dovuto vivere. Ha la febbre alta e mi chiede un piacere, se gli posso raccontare di com’era il mondo quando io ero bambina.
Vuole sapere se io sto ancora vivendo, aggrappata con tutte le forze che mi rimangono, al pensiero che tutto possa tornare come prima.
Il bambino nota la mia espressione mesta e, accorto, aggiunge: “Non preoccuparti mamma, ci sono io con te”.

Impugno la forbice, con l’altra mano tengo teso il filo e lo taglio.
Non sarà più come prima’ ognuno di noi sarà privato della propria identità, non importa nulla, a loro, delle nostre vite, non importa nulla di chi siamo e come abbiamo combattuto, fino al giorno in cui una forbice ha tagliato il nostro filo della vita.
Per quanto resistente, non lo sarà mai abbastanza da poterli fermare: il genere umano che sta annientando la sua stessa specie, senza rendersene conto
Un distintivo giallo, cucito con discrezione sulla casacca: la stella di David.

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