PARIGI, FLOREAL 1794

di Elena Gius

LICEO CLASSICO G. PRATI TRENTO

L’ennesima. Un’altra vita irrimediabilmente soffocata. Gli ultimi macabri e atroci secondi di un’esistenza che sta per essere messa a tacere per sempre. Fronte imperlata di sudore, mani legate che tremano, respiro affannoso. E una speranza che rende la sofferenza ancora più terribile. Un innato istinto di attaccamento alla vita e alla sopravvivenza. Altrimenti, ed è forse l’ipotesi migliore, una rassegnazione apatica, disinteressata e disillusa, una sorta di tecnica di difesa, in fondo. Pochi istanti, poi qualcuno tirerà la corda e io scivolerò velocemente scrivendo l’ultima parola della storia di qualcuno. E poi non si potrà più tornare indietro. La morte non ammette ripensamenti. Da qui posso vedere tutta la piazza. È gremita. Il che è forse la cosa peggiore di tutte. Peggiore ancora dello stesso fatto di ghigliottinare un uomo o dare disposizione di farlo. La folla assiste alle esecuzioni come se si trattasse solo di un passatempo qualunque, un diversivo che interrompe la noia di giornate tutte uguali. La vita di un essere umano, o meglio la sua fine, diventa oggetto di un vero e proprio raccapricciante spettacolo. Una curiosità morbosa impregna l’aria, tenendo gli occhi della gente incollati alla ghigliottina, incollati a me. L’atmosfera è tesa, però troppo poco. In fondo, dopo la prima, al massimo la seconda volta, ogni spettacolo perde di attrattiva. Ormai ogni francese sa che cosa aspettarsi. E questa è solo una delle tante teste che sono cadute, e che ancora cadranno, nella cesta.
Mi domando quanti, tra questi uomini insensibili, siano a conoscenza del nome del protagonista di questa tragedia. Ah giusto, non importa a nessuno. Del suo nome, della sua famiglia, della sua storia non importa davvero a nessuno.
Il cielo è terso, la luce abbagliante, sferzante quasi. L’aria è fresca, giovane.
Intorno alla piazza, le case si ammassano togliendo il respiro, quasi volessero anche loro assistere all’esecuzione. Sembra che si spingano l’una con l’altra, urtandosi, allungando il collo e alzandosi in punta di piedi (o chi per loro) per vedere meglio, a loro volta vittime di quell’interesse malato e terribilmente contagioso. Spesso fatiscenti, sporchi e pericolanti, i muri di questi edifici vantano però un’aria esperta, vissuta, superiore. Non si faranno certo impressionare dall’ennesima decapitazione. Dietro le case, sulle colline in fondo, gli alberi. Si discostano, si allontanano il più possibile, scappano da uno spettacolo orrendo. Si coprono gli occhi rapidamente, girano in fretta la faccia trattenendo il respiro.
La folla è diventata quasi una massa compatta di cui non si distinguono più i singoli individui, pavidi e omertosi testimoni di una strage che fa venire i brividi. Voci, urla, insulti, pianti, risate si fondono in una confusione assordante, invadente e inopportuna. Amara e beffarda colonna sonora della morte di un uomo. Che sta per essere giustiziato.
“Giustiziato”, sì. Dal verbo “giustiziare”, ovvero “fare giustizia”. Quindi ammazzare un uomo significa fare giustizia. E al contrario, per fare giustizia bisogna uccidere un uomo. Anche l’etimologia si prende sarcasticamente gioco di un destino spietato. Questo paradosso tetro mi disturba non poco, in effetti. Certo, molto spesso metto un punto alla vita di uomini spregevoli e che davvero meritano di essere puniti, resta poi da dimostrare che la decapitazione sia davvero la strada migliore per farlo, ma non è sempre così. Non sempre viene per davvero “fatta giustizia”. A volte, ad esalare prematuramente l’ultimo respiro sono uomini innocenti che non meritano quello che patiscono. Sono vittime di un sopruso arrogante e letale. Vittime di un pericoloso abuso di potere che è maschera di un’ignoranza dilagante.
Quello che la gente ha il coraggio di compiere in questa piazza, che resterà per sempre sulle pagine più cupe della storia francese, è segno di una tragica regressione, di un’ involuzione disastrosa. Il rispetto della dignità di un essere umano non può mancare. Soprattutto non nel diciottesimo secolo.
Sono artefice di qualcosa che anche gli animali si vergognerebbero solo di pensare. Vorrei potermi opporre a ciò che sono costretta a fare.
Suonano le campane. Undici rintocchi. L’ora prestabilita. Adesso manca davvero poco. Mi chiedo quali pensieri si affollino nella testa riccia che in una manciata di minuti sarà privata di un corpo. Che cosa pensa un uomo prima di morire? A niente? A tutto? A entrambe le cose?
Tutti muoiono e nessuno, per quanto apocalittico possa sembrare, può avere la certezza di arrivare alla fine di una giornata. La vita fa quello che le pare. E in fondo a renderla affascinante è proprio la sua stessa precarietà. Ma, come non si può dire ad un uomo con sicurezza che si
sveglierà anche il giorno successivo, non gli si può nemmeno dire che non lo farà. Non può essere un uomo a scrivere la vita di un altro e a stabilire quando questa debba finire. Ed è triste pensare che, in fondo, la vita continui comunque,   il contributo di ognuno è necessario ma non
indispensabile.
Forse ci pensa anche il (troppo) giovane protagonista di questo terribile spettacolo. Chissà.
È davvero giunto il momento. La folla si apre per far passare il mantello nero che nasconde il boia. E lui, che cosa penserà? Che cosa lo spinge a tirare la corda di una ghigliottina?
Sale gli scalini con passo lento. Il legno scricchiola gemendo. Cammina piano, con una calma grave e cupa. Poi si gira, per osservare il suo pubblico. C’è chi applaude, chi fischia, chi urla. Adesso tutti gli sguardi sono puntati su di lui. E lui sta assaporando la sua parentesi di notorietà. Con calma. Gira piano la testa per osservare ogni centimetro della piazza. Poi abbassa lo sguardo sull’uomo che sta per uccidere. Il suo volto rimane freddo e distaccato. Senza aprire bocca, si volta, avvicinandosi alla corda. Stringe le dita intorno alla fune con una freddezza agghiacciante. La sua espressione è impassibile, il suo sguardo, glaciale, impenetrabile.
Tra la gente, c’è chi trattiene il fiato e chi urla, imperterrito. Le case, curiose e spudorate, sbirciano con indiscrezione. Gli alberi si girano, stringendo gli occhi.
Il boia tira la corda.
Io inizio a scendere rapidamente. Il mondo scorre rapido di fronte a me; i colori si mescolano. Scivolo tra i binari con leggerezza. Poi, qualcosa va storto. Accade l’imprevedibile, l’inatteso.
La mia discesa si interrompe bruscamente. Qualcosa, forse nei binari, ha bloccato improvvisamente il mio corso. La folla esplode in un boato indescrivibile. Gli edifici spalancano la bocca increduli e gli alberi trovano il coraggio di voltare un poco lo sguardo verso la piazza.
Io rimango sospesa a metà. Sospesa tra il cielo e la terra. Tra la vita e la morte.

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