LA STANZA DEGLI SPECCHI

di Giulia Pontani

I.C. RITA LEVI MONTALCINI – Fontanafredda (PN)

 Non avvengono crimini nella piccola cittadina in cui abito, almeno, non avvenivano fino a un mese e diciotto giorni fa, quando io cominciai a fare degli incubi terribili. Cominciai a non dormire per colpa di incubi che nessuna ragazza della mia età dovrebbe fare. In una settimana vennero uccise tre persone, due donne e un uomo, uccise trafitte dai coltelli, dritti nello stomaco. Nessuno sapeva che i miei sogni fatti di omicidi e torture si concretizzano nella vita quotidiana. Nessuno lo sa, perché se qualcuno lo avesse scoperto mi avrebbero dato della “pazza”.
I miei genitori non sono d’aiuto. Mia madre, che di lavoro fa la commessa in uno squallido supermarket, spesso è ubriaca o come dice mio padre “strafatta”. Lei mi ha concepito a sedici anni, con un uomo che non è papà. Non so chi sia. Ora mia madre e mio padre sono divorziati ma sono in buoni rapporti o almeno così vogliono farmi credere.
Io mi chiamo Maya Mondel ed ho ventidue anni. Mio padre, o almeno la persona dalla quale ho preso il cognome, Frederich Mondel, è un poliziotto e lavora sui casi di omicidio.
Nella mia città tutti sono preoccupati visto che l’assassino colpisce senza una logica o almeno così si crede. Io non posso saperlo, ma perché una persona dovrebbe uccidere per il semplice gusto di farlo? Inconcepibile.
Erano le cinque di pomeriggio quando portai il mio cane, Fox, a fare una passeggiata. Fox è di razza pomerana o un “volpino” come io lo chiamo. È un cagnolino abbastanza piccolo, ma mangia tantissimo. Dopo aver fatto un giro intorno alla mia casa, quando cominciò a farsi buio, decisi di tornare a casa. Lo scuro non tarda ad arrivare d’inverno. Molto spesso le temperature non sono a mio favore e mi stanca stare al freddo. Probabilmente per un fattore psicologico. Arrivata a casa, non avendo particolarmente fame mi sistemai sul divano, con la Tv accesa, quando ad un tratto il sonno mi trascinò nelle sue viscere oscure di incubi perenni, tutto si spense, tutto tranne il mio cervello, che iniziò a sognare.
Una donna. Era priva di sensi e appesa per le braccia ad un tubo che scendeva gocciolante da un buco nel soffitto. Il suo corpo sembrava pesante lì appeso. Davanti ad un bersaglio.
Sul lato sinistro della stanza, poggiato su un muro di vetro, sembrava uno specchio, c’era un tavolo grigio metallizzato sulla quale erano posati nove coltelli. Il loro manico era color grigio cenere, la lama affilata e appuntita ogni coltello puntava verso la donna, sembravano invitarmi ad uccidere quella ragazza. Non so se ci sarebbero state conseguenze se non l’avessi fatto ma, sinceramente, non avrei voluto scoprirlo.
Una mano, era la mia, afferrò il coltello, lo fece girare tra il pollice e l’indice, e lo lanciò in direzione del bersaglio colpendo il muro a pochi centimetri dal collo della donna. Solo il muro su cui era disegnato il bersaglio era di mattoni, le rimanenti mura erano coperte da specchi. Arrabbiata per il mio errore presi un altro coltello e lo lanciai. Questa volta andò a segno, dritto nell’addome della donna che probabilmente sarebbe morta dissanguata.
Il sogno si interruppe e mio padre comparse nella mia camera. – Ciao May – disse. Aveva lo sguardo spento, perplesso. Deluso. – Papà, cosa succede?
Io non vivo con mio padre, ma lui usa spesso le chiavi poste all’ingresso dietro una pianta per entrare nel mio appartamento. Credo che lo faccia perché si sente solo a casa sua.
È stata assassinata un’altra donna.
– Mi dispiace! – gli risposi, seduta sul letto.
– Una donna, come nel mio sogno – pensai.
– Anche a me – disse lui sospirando, – Ora devo andare a lavoro, buona giornata May.
– Buona giornata papà.
La giornata che seguì a quella conversazione con mio padre fu noiosa e per niente diversa da tutte le precedenti. Feci le solite cose: la spesa al supermercato dove lavora mia madre (che è l’unico posto dove posso incontrarla e farci quattro chiacchiere, perché non ho intenzione di entrare in uno di quei posti che lei frequenta dove la gente è così drogata da fare lo spogliarello sopra una sedia), il bucato, il pranzo, un panino con la mortadella e il pomodoro tagliato a fette, e il bagno a Fox.
Scese di nuovo il buio anche dopo la solita routine, ma ci sarebbe stato qualcosa di diverso, la mia vittima. Chi avrebbe ucciso la mia immaginazione questa sera? Solo sognando avrei potuto saperlo.
Era circa l’una di notte quando mi addormentai.
Tornai nella stanza degli specchi e questa volta c’erano due vittime, precisamente, due uomini. Non era mai successo che due persone nella stessa notte abitassero la mia “stanza proibita”, ma la cosa era stranamente soddisfacente. Solo l’idea di uccidere due persone del sesso a me opposto mi faceva sentire potente, o almeno, meno insicura di me stessa.
Prima di prendere i coltelli andai a guardarmi allo specchio, avevo un aspetto orribile, stanco e arrabbiato. Mi avvicinai al tavolo con i coltelli, erano sette. Probabilmente la mia mente aveva eliminato i due usati la sera prima. Ne presi tre, uno con la mano destra e due con la sinistra. Lanciai contro l’uomo alla mia sinistra il primo coltello, quello nella mano destra. Morì con un colpo unico che incise il cranio. Almeno non ha sofferto.
Per il secondo uomo provai un’enorme pena, sembrava molto giovane, ma la mia “gemella cattiva” non provava pena per nessuno, così l’uomo morì, il sogno finì e, senza grosso stupore da parte mia, successe anche nella realtà.
In televisione lo descrissero come “un terrificante episodio di cronaca: due uomini assassinati la stessa sera dal killer dei coltelli”. Cavolate. Il “killer dei coltelli?” Questa persona è malata. In neanche due mesi ha ucciso sulla cinquantina di persone.
Nel pomeriggio mangiai con papà a casa di zia Carola. Una persona odiosa. Zia Carola ha la voce così acuta che quando parla è una tortura per i timpani, ma a parte questo, non successe nulla di particolare; ma come sempre la notte si presentò puntuale come la morte.
Giunsi nella stanza degli specchi. Il mio viso era sporco, grigio come la cenere. Anche le gambe e le braccia avevano il medesimo colore.
Questa notte, nella stanza, era diverso perché c’eravamo solo io e una corda. So cosa deve succedere. Ma la mia intuizione potrebbe essere sbagliata, deve esserlo. Magari, superata la notte non avrei più ucciso nessuno e, soprattutto, non mi sarei uccisa.
Non ho intenzione di morire.
Avrei voluto laurearmi.
Magari sposarmi e avere dei figli.
Mia madre avrebbe potuto disintossicarsi e tornare sobria. Mio padre avrebbe potuto scoprire che io, sua figlia, in qualche inspiegabile modo, avevo ucciso tutte quelle persone.

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