Tredici Tagli

TERZA CLASSIFICATA

 ARIANNA ISEPPI

I.C. Trissino (VI)

 

La sorella di Arianna Iseppi ritira il premio

La sorella di Arianna Iseppi ritira il premio

TREDICI TAGLI

È notte. Questo è il momento della, giornata che preferisco. Posso piangere senza paura che mamma e papà mi sentano e che comincino con il loro solito e inutile ‘terzo grado ‘. “Asia, qual è il problema? “. Quante volte me lo sento ripetere! Quanto odio questa domanda!

Il viso sprofonda tra le mie mani. Non ricordo nemmeno l’ultima volta in cui mi hanno dedicato un po’ del loro “preziosissimo” tempo. Quando esco di casa e vedo i bambini che camminano allegri, mano nella mano con i loro genitori, penso a come sarebbe stato bello avere un’infanzia felice come la loro, con mamma che ti viene a rimboccare ‘le coperte, ti sussurra ‘buonanotte’ dolcemente all’orecchio e ti stampa un bacio sulla fronte prima di chiudere la porta della camera. Con papà che ti porta sulle sue spalle alla domenica e ti stringe forte forte la mano mentre attraversate le strisce pedonali.

Avrei voluto almeno per una volta sentirmi io quella che deve essere protetta e non quella che ha il compito di proteggere gli altri.

Sì, ero io che dovevo aiutare mia madre ad andare a letto perché era così sbronza da non ricordarsi nemmeno il suo nome. Ero io che dovevo nascondere a mio padre le bottiglie di vodka e cercare, invano, di farlo ragionare anche se sapevo che, se era totalmente ubriaco, avrei rischiato pure di prendermi due ceffoni in faccia.

Che incubo la mia infanzia! Ricordo ancora i pianti che tutte le sere cercavo di soffocare sotto le, coperte con la paura di farmi sentire e di scatenare in loro: altra rabbia.

Poi sono arrivati gli incontri con il gruppo degli alcolisti anonimi; le cose ora vanno un po’ meglio. Adesso, se bevono, non lo fanno in mia presenza: il giudice con loro è stato molto chiaro.

La luce degli abbaglianti di una macchina filtra attraverso le fessure della tapparella, illuminando debolmente il bagno.

Mi sono rinchiusa qua dentro appena ho sentito il sonno vincere sui miei genitori.

Mi asciugo con la manica le lacrime che scivolano sulle mie guance. Ormai è da diversi mesi che indosso solo felpe; non mi interessa il loro colore o la marca. Le voglio grandi, larghe; il mio corpo deve sparire dentro di loro. Le mie ferite sono ‘solo mie, mie quelle morali, mie quelle fisiche.

Mi avvicino lentamente allo specchio.; la mia immagine riflessa è la peggior tortura.

E possibile guardarsi e vedere soltanto difetti?

Trucco sfatto: residui di matita nera sciolta sulle guance! Stupida illusa! Come ho potuto pensare di poter piacere a qualcuno?

“Ecco là! La sfigata oggi si è truccata! E magari si crede anche bella! Consiglio: mettiti un sacchetto in testa, allora sì che farai un figurone”. Riecheggiano nella mia vuota mente queste parole.

Alle offese ormai ci sono abituata, mi hanno ‘fatto tanto male all’inizio, ma ormai non mi toccano più.

Le risate, però, quelle stupide risate di scherno che seguono le tante battute, quelle sì che fanno male, ti logorano dentro, ti uccidono lentamente, ti fanno sentire piccola piccola. Disprezzo, pena, disgusto: questo suscito negli altri.

Nessuno si è mai accorto della tempesta che mi scuote dentro.

Apro l’anta dell’armadietto sotto il lavabo. Con le mani affannosamente cerco la scatoletta, “quella” scatoletta: nascosto vi trovo l’apriscatole.

Eccolo qui. Ecco il mio miglior amico e il mio peggior nemico. Solo lui mi permette di vincere il dolore con altro dolore. Meglio un taglio sulla pelle che un taglio nell’anima!

La mia mano trema, lo avvicino al polso per l’ennesima volta Prima però i miei occhi ricadono nuovamente sul braccio e inizio a contare, le cicatrici che mi sono rimaste: tredici. Tredici tagli.

Tredici volte in cui mi sono sentita sbagliata, inutile, un brutto ‘scherzo della natura’. Tredici volte in cui la mia ragione è stata sopraffatta e, purtroppo, ha avuto la peggio. Tredici stramaledettissime volte in cui, accecata dalla disperazione, mi sono fatta male, come se gli altri non me ne facessero già.

Ricordo perfettamente la mia prima volta.

Ero appena tornata a casa da quell’inferno chiamato scuola; miei “amici” mi avevano augurato di morire. Sì, proprio così. Mi avevano detto che se fossi sparita non se ne sarebbe accorto nessuno. Davvero nessuno! Una scatoletta, di tonno, un bicchiere e un apriscatole mi attendevano a tavola. I miei occhi erano stati attirati da quel bagliore: un apriscatole rodiato in argento, con una vecchia impugnatura di plastica ora
scheggiata, di un rosso ormai sbiadito, con la lama affilata quanto quella di un coltello, anche se ormai usurata dal tempo, collegata a due rotelline a formare un ingranaggio girevole, che permetteva di tagliare l’intero coperchio di un barattolo. Era stato dimenticato da mia zia tanto tempo prima.

Mia zia: è stata più madre lei di quella che il destino ha scelto per me.

Lo avevo preso in mano con l’intenzione di aprire il solito “lauto pranzo” che i miei genitori mi avevano lasciato prima di sparire per andare chissà dove.

La sua lama, la sua punta e per la testa il pensiero più brutto che avessi mai formulato, ma che quasi mi rendeva euforica..

Era successo tutto in un attimo: il dolore atroce, il pulsare dei tagli e il fazzoletto inzuppato sangue un misto di orgoglio e vergogna.

Il primo taglio me l’ero procurato quasi inconsciamente, ma dopo.. dopo non ero riuscita più a fermarmi. Osservavo il sangue scendere dal mio polso e.. sorridevo, compiaciuta.

Quella sensazione mi faceva stare bene. C’era voluto coraggio. Per quanto mi volessi male, era stata davvero dura.

Chiudo gli occhi: la scena dell’ultima volta mentre, con gli occhi gonfi dalla disperazione, mi’ ferivo con quel piccolo utensile insignificante, con il liquido rosso vivo che sgorgava dal mio braccio e cadeva a terra, mescolato al sapore salato, quasi amaro delle mie lacrime, continua a passarmi nella mente. Ho davvero toccato il fondo. No, non ci sto più! Mi hanno fatto sentire indifesa, mi hanno fatto cadere e non mi hanno mai aiutato a rialzarmi. Ma questa volta non lo accetto. Non crollerò, non voglio più soffrire. Decido io della mia vita. Sono forte e saprò lottare contro i demoni che vivono dentro e fuori di me. Voglio, un giorno, ridere pensando a questo momento. Ridere in faccia a tutti quelli che non ci credevano :<<Avete visto?! Ce l’ho fatta! Sono ancora qua con gli occhi di chi ne ha passate tante e il sorriso di chi le ha superate tutte!».

Getto l’apriscatole a terra: voglio mettere fine a questo rapporto maledetto.

Scelgo di vivere.

Ho scelto me stessa.

Lascia un commento