Le regole del gioco

RACCONTO SEGNALATO

EDOARDO MANGINO

IC DIVISIONE JULIA – TRIESTE

 

LE REGOLE DEL GIOCO

Ed eccoci qua. Terzo banco, fila centrale. Tommaso osservava la parete, rapito dall’impercettibile, interminabile movimento delle lancette dell’orologio.

Ma la prof le conosce le regole? Non lo sa che non ci sono i supplementari in ogni partita? L’inesorabile ticchettio scandiva il ritmo nell’aula grigia, tra un’equazione e “Il cinque maggio”, tra il pessimismo leopardiano e l’evoluzione della specie. Già, perché si sa che la selezione naturale privilegia i più forti. E gli scarsi se ne stanno in panchina per tutta la partita. A proposito, chissà che formazione avrebbe schierato l’allenatore nella partita contro il San Giovanni …

Meno un minuto al fischio finale … la campanella …

Già sapevamo che la prof ci avrebbe inchiodato ai banchi ancora un po’, per completare la spiegazione.

Ma la mente viaggiava oltre, pregustando il solito rituale. Pronti via! Matteo avrebbe fatto roteare in aria la cartella di tecnologia, quasi volesse spiccare volo.

Giovanni invece avrebbe accennato qualche passo di quella sua danza ritmata che accompagna la fila di studenti fuori dal portone. lo, poi, avrei seguito il gruppo in coda mano nello zaino a caccia del cellulare e delle cuffiette.

E così fu anche in quel grigio mercoledì di novembre. Dopo aver salutato la prof, Tommaso si diresse nel cortile della scuola, luogo che per noi non ha segreti. Alla destra delle scale si trovavano i bambini della Primaria, che,

accucciati sui gradini,  si scambiavano figurine. A sinistra la mandria selvaggia degli adolescenti procedeva spingendo e scalpitando per conquistare la libertà oltre il cancello.

In disparte, in un angolo nascosto, i ‘perfetti”, calati nelle loro maglie over size, fumavano protetti dagli sguardi di professori e genitori, mentre le loro creste, stile Stephan El Shaarawy, si stagliavano in cielo. Li osservavo con insistente curiosità.

E loro osservavano Tommaso. Perché proprio lui? Cosa volevano con quei sorrisi beffardi stampati in faccia?

Cosa volevano con i serramanico che sbucavano come strani artigli sotto le felpe? Che gioco stavano giocando? Tommaso è un ragazzo semplice e indipendente, che in mente ha solo il calcio. Per lui, per me, per i nostri padri e nonni, il calcio non è solo uno sport, è una passione, una religione. Mi avvicinai a Tommy, con un cenno lo invitai a seguirmi e ci incamminammo frettolosamente senza parlare. L’indomani alle sette e trenta in punto passai da casa sua. Come ogni santa mattina, la voce stridula della madre echeggiava esasperata nel caseggiato rosa.

Solita scena, solito copione: sua madre centometrista rincorreva la sorellina ipercinetica lungo il corridoio; il padre in cucina trangugiava una tazza di caffè dopo l’altra, disperso nel suo mondo fatto di mail e appuntamenti irrinunciabili.

Ci aspettava una nuova mattinata di scuola, il nostro Purgatorio quotidiano, necessario per conquistare il Paradiso del giovedì pomeriggio: l’allenamento con il Mister al campo di San Luigi.

Quel pensiero felice ci faceva sentire vicini, ci aiutava a resistere dietro ai nostri banchi.

Nessuno avrebbe sospettato che alle tredici e quarantacinque di quel pigro giovedì, all’uscita dalla scuola, ci avrebbe atteso

un intervento a gamba tesa, combinata alle nostre spalle.

Nel cortile Tommaso e io avvertivamo un’atmosfera strana: niente scambio di figurine, niente chiacchiere degli alunni, niente ragazzi “perfetti” … niente di niente.

Il cielo era azzurro, ma ci pareva grigio. Ci salutammo un po’ mesti: Tommaso voleva prendere l’autobus, io no. Lo lasciai alla fermata. Non avrei dovuto. Ero già lontano, ma non tanto da non notare la scena che non avrei mai voluto vedere. Tommaso era stato afferrato per il collo e sbattuto al muro con le mani bloccate. Il branco, che l’aveva annusato, ora l’aveva raggiunto. Tommy avrebbe voluto correre, ma le gambe erano paralizzate, i piedi incollati all’asfalto. Fino a quel momento non aveva mai conosciuto la paura. Anch’io non ne avevo mai visto il vero volto. Schiaffo a destra, pugno in pancia e, a seguire, calcio in piena faccia. Pioveva una raffica di colpi che Tommaso non poteva far altro che subire, immobile. Dall’angolo della strada riuscii in qualche modo a intravedere tre ragazzi incappucciati, muniti di coltelli serramanico. Il solco di una lama grigia brillava al sole, il riflesso si fermò secco sulla vittima; quel coltello avrebbe potuto portare Tommaso fuori dai giochi. Tre contro uno, coltelli contro pugni tremolanti, furia cieca contro mite innocenza. Nessuno poteva salvare Tommaso in quel gioco senza regole, in quel gioco al massacro … o forse la squadra avrebbe schierato il miglior difensore negli ultimi minuti. Ad assistere a quella terribile rissa senza senso c’ero io. Forse aveva un senso il fatto che fossi lì, a pochi passi dal branco, e che non fossi ancora fuggito. In fondo sono amico di Tommaso, pensavo con il cuore in gola, uno dei pochi.

Ci conosciamo dai tempi dell’asilo.

Avrei dovuto fare … ma cosa? No, io non ero lì alla fermata. Non mi interessava prendere il bus.

Che c’entravo io? In fondo non erano affari miei.

Guardavo ogni singolo colpo, con i tempi lenti della moviola, non potevo farne a meno. La realtà mi sembrava trasparente. Non volevo scendere in campo Non in quel momento. Per strada non c’era anima viva, il cellulare sembrava disconnessa Tommaso, con la sua maschera di sangue, non mollava, restava in piedi tentennando, come un vero guerriero, che attende fiero il colpo di grazia e si prepara alla sconfitta. In fondo non tutto era perduto, pensai: ci sono i supplementari e, casomai, si va ai rigori. Beh, si sa, quando il gioco si fa duro, i duri incominciano a giocare.

Fu solo in quell’istante che compresi che non potevo stare in panchina. In realtà ero già in partita, stavo giocando anch’io, con la squadra sbagliata. Mi sfilai la casacca nera per sostituirla con quella bianca. Mi lanciai verso Tommaso, verso l’area avversaria La mia corsa subiva arresti continui: c’era la nebbia, c’era la paura. Sfidai sguardi e coltelli: quei serramanico li conoscevo. Li avevo già visti nel cortile della scuola; li avevo incrociati qualche volta allo stadio, piccoli e acuti come gli occhi di chi è accecato dalla follia violenta. I serramanico aperti erano zampe di lupi, i lupi del branco.

Ultras, bulli, fanatici. Bestie.

Mi ritrovai dolorante accanto al mio amico che, privo di sensi, sedeva a terra. Cercavo di tamponare il sangue sul braccio ricoperto di tagli. Il cellulare era scarico, ma qualcuno ci notò. Tommy aprì gli occhi tumefatti e mi strinse le mani.

Sì, quella partita l’avevamo vinta, una partita decisiva, la prima di una lunga serie, perché il calcio come la vita:  vittorie e sconfitte, falli e agili dribbling, rabbia e passione, occasioni sfumate o acchiappate per un soffio ai supplementari. L’importante è il gioco di squadra, quella del cuore.

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