Non smettere di volare

RACCONTO SEGNALATO

Caterina Lavagnini

Isis Carducci Dante-Trieste

NON SMETTERE DI VOLARE

 

“Tre minuti e si inizia! Non perdete tempo!”

Accarezzo il mio braccio, le cicatrici segnate, la pelle rovinata. Gli sbagli, gli errori hanno tutti segnato il mio corpo con tratti più o meno sottili. Percorsi che si incontrano, si allontanano. Il mio indice è leggero sul sottile spessore delle parti in rilievo. Un piccolo tatuaggio. Una rosa sul mio polso, che mi infonde forza e coraggio. Rimpianto e nostalgia racchiusi nei petali.

“Ehi prendi la tua roba ed entra! Tocca a te!”

Ci pensano le parole di Steve a interrompere il flusso dei miei pensieri. Lungo e ininterrotto, ora rapido ora lento. Raccolgo i miei coltelli ed entro ‘nel tendone. Le estremità sono mosse dal vento e si levano in aria rapidi e fuggevoli.

Aspetto il segnale.

“Ed ecco a voi il lanciatore di coltelli!”

Entro in scena veloce.

Percorro una semicirconferenza.

Mi dispongo a venti o venticinque metri dal bersaglio.

Prendo i coltelli per l’impugnatura, la lama luccica, quando un raggio di sole riesce a sfuggire al tessuto del tendone. Lo scintillio cattura Io sguardo del pubblico.

Lancio un coltello con la mano destra, uno con la sinistra.

Poi a occhi chiusi, poi voltando le spalle. Bendato, contemporaneamente entrambe le mani.

Ogni volta che porto indietro la mano, pronto per lanciare, il chiassoso pubblico diventa muto, come se, improvvisamente, dimenticasse l’oggetto delle numerose conversazioni. Il tempo sembra rallentare, deformarsi. L’unico suono è quello del mio cuore pulsante.

Centro il bersaglio, sempre. Viene trafitto dai miei coltelli dalla punta sottile e affilata.

La mia vita legata a delle lame. La mia vita è quelle lame.

Faccio un inchino leggero, appena accennato. Urla e fischi irrompono furiosamente. Come sempre, con il concludersi del mio spettacolo, pongo fine anche alla naturale paura del pubblico. Riesco a immaginare la loro adrenalina che rende affannoso il fiato, tende i muscoli, provoca un brivido lungo tutto il corpo. La conosco bene quella sensazione. Ricordo ancora quando mi sedevo tra le file rumorose e, a mia volta, mostravo sul volto paura, sgomento, gioia.

Così esco di scena, tolgo il mio costume da lanciatore di coltelli e indosso quello di uomo comune. Janine mi stringe il polso. Ha indossato la sua tutina aderente e il fremito delle sue mani è il segno che sta per iniziare il suo numero.

“Buona fortuna” le sussurro in un orecchio.

“Non ho bisogno della fortuna.”

Ha diciassette anni e ha abbandonato famiglia e certezze per dedicarsi a un’attività completamente fuori dagli schemi. Ha iniziato a seguire qualche lezione di trapezio, e si è immediatamente resa conto del

carico di lavoro che doveva portare a termine.

Quel gioco iniziato per stuzzicare i genitori, per dimostrare loro che nulla poteva fermare il suo fuoco è diventato la sua passione e la sua rovina.

Tre mesi fa ha mollato la presa: è caduta e non ha mai più potuto sfiorare il suo trapezio. Quella vita che si era conquistata, la sua personale rivincita, che aveva bramato e ottenuto dopo sacrifici, le era stata privata, un’altra volta. Quella sua idea di indipendenza strappata con i denti da un mondo che le era avverso.

La sua folle determinazione, la sua sete di indipendenza, il suo corpo esile, il suo amore per il trapezio. Tutto di Janine mi ricorda lei. Arianna. Come nel mito del Minotauro, sono stato guidato dal suo filo e ne sono rimasto impigliato.

Iniziato tutto come un mestiere, un’imposizione a cui dovevamo sottostare. Io lanciavo e lei evitava i miei coltelli. Disegnavo una figura di lame intorno alla sua silhouette. Ma poi, la paura di colpirla mi ha impedito di continuare: vedevo ogni notte i suoi muscoli strappati, il sub fiato spezzato, la sua vita recisa dai miei coltelli.

Poiché mi amava, ha deciso di provare il trapezio, poiché lo amava, ha continuato. Il nostro era un amore sincero e silenzioso.

E, come una rosa, è stato reciso al primo sbocciare. Sfioro il mio tatuaggio.

Raccolgo i miei coltelli. Percorro tutto il dietro le quinte di questo luogo irreale. C’è gente che fa esercizi per scaldare i muscoli, chi prova a lanciare le palline, chi ritocca un trucco complesso. Tutto deve essere perfetto. Non dobbiamo lasciare trasparire neanche un sentimento, un’emozione riconducibile alla nostra vita privata.

Entro nella mia cabina. Levo nero intorno agli occhi. Metto le mani in tasca e trovo un• foglietto piegato. Lo accarezzo delicatamente, come fosse un viso. Chiudo gli occhi e riesco a vedere chiaramente il contenuto di quel foglio piegato.

“Franz! Ehi Franz, mi senti?” Lascio cadere il biglietto nella tasca. “Abbiamo finito. Vieni a bere qualcosa?” Il mangia fuoco. Rughe profonde, labbra screpolate occhi gentili.

“Arrivo, dammi un minuto.” “Come sempre.”

Accenno un piccolo sorriso. Siamo arrivati qui insieme ed è l’unico che abbia capito.

Apro un’anta del mio armadio, trovo subito la sua valigetta. Ci sono ritagli di giornale, la sua tutina, un paio di cartoline, dei fermagli, la bustina con i trucchi, ancora intatta dall’ultima esibizione.

Era la migliore, in assoluto. Proprio per questo doveva finire così. La sua ambizione, il desiderio di spingersi sempre un po’ oltre il limite. Quel punto in cui risultava straordinaria, pur conservando la sua sicurezza. La sua determinazione è stata incredibile, la brama di migliorarsi, anche dopo aver raggiunto la perfezione. Forse la perfezione l’ha annoiata. Perché poi è diventata disattenta, incauta.

‘E caduta. Non si è più rialzata. Io non mi sono più rialzato.

Ogni sera apro la sua valigetta. Forse perché lo faceva sempre anche lei. La consapevolezza di fare una parte della sua vecchia routine mi lega a lei, al suo ricordo.

Non so cosa sperare di trovare là dentro. Prendo il bigliettino dentro la tasca. Lo spiego.

La nostra unica fotografia insieme. L’unica cosa che• possa confermare ciò che una volta è stato così naturale. Giro la foto, che ormai conosco a memoria anche nei più piccoli dettagli. I miei occhi sanno già cosa cercare. La sua grafia’ pulita nelle quattro parole, che so recitare a memoria “Non smettere di volare”.

Angelo mio. Non abbandono questo circo, solo per poter rivedere lo spazio in cui ti sentivi così libera, dove potevi volare. Ripiego il foglietto. Chiudo la scatola dei ricordi.

Angelo mio, ci vediamo domani. Non smettere di volare, che qua, a lanciare coltelli, ci sono già io.

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