UNA LAMA COLPEVOLE

SECONDA CLASSIFICATA

GIORDANI RESSEL SVEVA

IC “DIVISIONE JULIA” TRIESTE

 

 

UNA LAMA COLPEVOLE

 

Era mio, finalmente: quel coltellino che apparteneva alla mia famiglia da generazioni finalmente era mio!

Per molti si sarebbe trattato di un oggetto qualunque, ma non per me: per me era sempre stato speciale.

Ogni volta che ero lontano da casa, dalla mia famiglia, mi bastava dargli uno sguardo, tenerlo stretto fra le mani e non mi sentivo più solo: era appartenuto a mio padre e ancor prima a mio nonno.

Ora era lì, immobile tra le mie dita e mi fissava. Aveva un non so che di particolare nella sua semplicità che mi aveva sempre attratto: sul manico era inciso il cognome della mia famiglia e vicino un fiore, una Rosa Canina. La lama ormai consunta rimandava il riflesso di un volto irriconoscibile. Senza motivo iniziai a piangere, ma sapevo che dovevo fare silenzio. Non potevo, non dovevo mettermi a piangere davanti ai miei superiori e ai miei compagni. Sarei risultato un vile. Trattenni le lacrime per un po’, ma poi non riuscii più a frenarle: scesero impetuose come una cascata muta, rigando il mio volto scuro, terra nella terra, scavando umidi solchi in un cuore inaridito.

“Che hai?” Mi chiedevano i compagni gettando a terra il mozzicone dì sigaretta e passandomi la fiasca di vino. Restai curvo, nella mia buca, continuando a fissare il mio coltellino: dicevo che avevo caldo, scrollando le spalle, come se tutto li fosse normale. Il tempo trascorreva troppo lento ed io, accarezzando quella dolce lama, io non so se sognavo quell’inferno o se lo stavo vivendo.

Notai allora quella piccola incisione sulla lama: proveniva dalla coltelleria di Maniago.

Improvvisamente mi ricordai di quel coltellino. Sì, mi ricordai tutto quel che mi avevano raccontato mio nonno e mio padre.

Apparteneva alla mia famiglia da tantissimo tempo. Il mio bisnonno lo aveva comperato per le sue lunghe camminate nei boschi dove gli usi di un coltello simile sono molteplici: tagliare piccoli rami, scortecciarli, inciderli, raccogliere o ripulire i funghi o all’occorrenza semplicemente soccorrere.

Mi ricordo che quando ero piccolo lo desideravo con tutto me stesso e lo chiedevo insistentemente al nonno, mentre mia sorella lo guardava come imbambolata, rapita dal fascino di quella lama. Il nonno però lo dava sempre a me, perché ero più grande di mia sorella e anche perché ero maschio. Lei allora ne era invidiosa e, con mille stratagemmi, cercava di rubarmelo.

Mi ricordo che un giorno riuscì a sottrarmelo; aveva solo cinque anni e io nove. Non finì bene però; perché per togliermi il coltellino di mano, finì col ferirmi: un bel taglio rosso rubino sul palmo della mano! Come urlò la mamma quella volta: pensavo mi avrebbe divorato, e invece no, era inferocita con il nonno, perché non avrebbe dovuto lasciare un coltellino in mano a un bambino! A ripensarci non so se fosse davvero la mia mano a preoccuparla o piuttosto l’idea che disordinato com’ero avrei potuto perdere quell’oggetto così prezioso e bello.

Mi dispiace tantissimo, se ci penso, per quel che il nonno deve aver passato a causa nostra: quando la mamma si arrabbiava faceva tremare le finestre, come una scossa di terremoto! Tirava le orecchie la mamma e quando aveva finito la sfuriata non c’eran dubbi che la volta dopo ci avresti pensato su, non ti saresti ficcato di nuovo nei guai. Però, devo ammetterlo, ora, in questo momento, pagherei per tornare a casa a sentire 100 volte quelle sgridate!…. Ah, mamma, peché non mi hai tirato le orecchie quando sono partito? Non dovevi abbracciarmi forte quel giorno in cui ti lasciai, dovevi picchiarmi, mandarmi in camera in punizione, tenermi con te!

Dopo quell’episodio, mio nonno non mi fece più toccare il coltellino finché non ebbi tredici anni. E fu mio padre ad insegnarmi ad intagliare e a fare qualche lavoretto, soprattutto per la mamma e mia sorella, in legno.

Oltre ad incidere, mi ricordo che andavo a prendere i funghi insieme a mio nonno e a mio padre.

Camminavo lentamente nel bosco vicino a casa mia insieme a mio nonno. Sotto gli abeti c’era un tronco abbattuto, dove sedevo a riposarmi e mio nonno mi raccontava storie di tempi lontani, di folletti e fate oppure mi insegnava a riconoscere i diversi tipi di funghi, il loro nome, la forma e il profumo.

P er me trovare un fungo era sempre una felicità, anche se non sempre mi ricordavo quali fossero commestibili è quali velenosi, ma il nonno paziente si chinava, controllava e mi spiegava ancora e ancora che quello era un porcino, l’altro una mazza da tamburo, l’altro ancora una russola.

Una cosa che il nonno non tollerava era che io raccogliessi i funghi indistintamente e glieli portassi. Perché? Perché mi ripeteva che alcuni funghi sono velenosi per noi, ma non per gli animali del bosco e che il mio gesto avventato sottraeva cibo a chi ne aveva bisogno.

Ora, però, il boschetto praticamente non esisteva più, sparito. Sparito come quel bambino spensierato che questo orrore ha cancellato. Gli alberi sono caduti, gli animali del bosco scomparsi e funghi dissolti nel nulla. Solo pietra, fredda pietra e fango!

Qui un giorno sopravvivi e un altro muori.

Sono da mesi al fronte: una squallida buca scavata nell’arida pietra carsica. Molti dei miei compagni sono morti e i loro cadaveri giacciono stesi a terra là dove un giorno si levavano faggi, abeti, cerri e carpini. Una volta questo era un bosco, rifugio di cinghiali, caprioli e scoiattoli, ora qui c’è solo questa maledetta roccia che si spezza in mille proiettili affilati sotto i colpi delle mitragliatrici.

La trincea è l’inferno: si è portata. via il mio bosco, si è portata via la mia anima, ora non le resta che prendersi quel che avanza della mia vita.

Riaprii gli occhi. Lampi squarciavano il cielo nero; nell’oscurità le sagome dei reticolati e il fragore dei colpi. incessanti. Lui continuava a stare H: il manico soffocato dal mio pugno di assassino. Ero abituato a stringere: le dita talmente rosse nello sforzo sembravano stessero per esplodere. Non erano più le mani innocenti del bambino che delicatamente intaglia cortecce e raccoglie funghi per il sugo. No, erano mani rudi, incapaci di carezze. Prima era così lucente questa lama, così innocua, così bella; rimandava il bagliore dei raggi del sole! Ora, invece, imbrattata di sangue, non affonda nel morbido gambo dei funghi ma nel corpo di qualche soldato, nel suo sangue nero. Adesso, questo coltello è divenato strumento di morte; come me ora può soltanto uccidere. Uccidere per non venire ucciso. So che mi proteggerà, sarà come quella volta in cui con papà

vidi una vipera e io non avevo paura, perché avevo il mio coltellino in tasca… quella volta non avevo ancora tolto una vita e il pensiero di poterlo fare mi faceva sentire grande e potente, ma ora che già troppe volte avevo tolto un figlio alla madre, un marito alla moglie, un padre al figlio non c’era più nulla di sublime, nulla di meraviglioso. Restava solo l’orrore.

Rimisi il coltello in tasca, il mio amato, inseparabile coltello: quella notte non avremmo attaccato.