LEGÀMI

TERZA CLASSIFICATA

FRATI GIORGIA

IC “MARGHERITA HACK” MANIAGO

 

 

LEGÀMI

 

Io e lui eravamo come il giorno e la notte, totalmente incompatibili. Eravamo due mondi paralleli ma, in modo quasi paradossale, l’uno non era nulla senza l’altro, Non avevamo mai un’idea uguale, o perlomeno simile. Avevamo imparato a conoscere la vita in modi completamente diversi, ma nessuno dei due aveva ancora capito come viverla. La vivevamo alla giornata, oggi sai cosa ne è di te, domani non più. Era tutto un grandissimo punto interrogativo. Vivevamo in balia del destino. Era rischioso, ma aveva un non so che di divertente e misterioso. All’inizio lui non sembrava per niente un padre, perché nessuno gli aveva insegnato ad esserlo e credeva addirittura di saperlo fare. Ed io ero sua figlia.

In realtà, per i primi quattordici anni della mia vita, non sapevo nemmeno se mio papà avesse il mio stesso colore di capelli, Non sapevo se avesse la barba o se fosse alto. Sapevo solo di avere un padre, ma non lo conoscevo. Mamma non mi parlava mai di lui. Ero solamente riuscita a capire che abitava in Francia, in un’enorme villa con la piscina all’interno. Passava le giornate ad investire il suo patrimonio, in un modo quasi noioso. Andava al casinò, giocava a polo, organizzava cene ed eventi; ma in tutto quel tempo libero, non aveva mai trovato un minuto per sapere qualcosa in più su di me, né aveva mai provato a cercarmi

Quando mamma morì, io iniziai a vivere con la zia.

Poi un giorno bussò alla porta quest’uomo. Era alto e parlava con uno strano accento francese, che mi piaceva cercar di imitare. Dietro di lui c’era un signore che gli reggeva l’ombrello, a primo impatto mi sembrò un tassista, poi capii essere un maggiordomo. La zia li fece entrare e accomodare in salotto. Si comportava come se quei due li conoscesse già, era ospitale e una nuova emozione le aveva rischiarato il volto. Mi venne spiegato dopo chi fosse quell’uomo e dovetti da subito imparare a viverci assieme, dovetti accettarlo nella mia vita come un padre, anche se si era perso tutte le cose belle della mia infanzia.

Scoprii dopo da dove provenisse tutta quella fortuna. Vendeva coltelli.

All’inizio mi parve una cosa tanto ridicola. Non pensavo si potesse fare una fortuna con delle lame. Invece sì. Era proprio così. Mio padre viveva grazie a quegli stampi di acciaio inossidabile che produceva da sempre. In particolare, era attratto dai coltelli da barca, erano i suoi preferiti.

Il venerdì pomeriggio, quand’era a casa, usciva prima da lavoro. Mi portava al porto a guardare il tramonto, poi salivamo sulla sua barca a vela e salpavamo con la mente. Con lui feci dei viaggi indimenticabili, circumnavigammo le Americhe, attraversammo l’Oceano Indiano, ci tuffammo dalla prua e nuotammo assieme ai delfini, tutto questo rimanendo seduti a cavalcioni sulla passerella del porto. Parlavamo ai pescatori, passeggiavamo su e giù sulla spiaggia cercando di conoscerci un po’ di più. E dopo circa tre anni sapeva tutto di me, sapeva come trattarmi quando stavo male e come sfruttare le belle giornate, ero la sua principessina, dedicava tutto il suo tempo libero a me. Ero diventata il centro del suo mondo.

Non gli chiedevo mai di mamma, di loro due, perché avevamo entrambi sofferto abbastanza. Era diventato un padre perfetto.

Poi, man mano che il tempo passava, mi trasmetteva la sua passione per i coltelli.

Guardava quel pezzo metallico come se fosse il prodotto di una magia. Lo studiava in tutte le sue sfaccettature, lo stringeva in un pugno facendosi sangue. E non soffriva. Quella lama era parte di lui, della sua vita. E le sue mani erano abituate al quel trattamento. Erano logore. Raccontavano la storia di chi la storia la stava scrivendo. Mani prima incerte e poi incredibilmente abili, Avevano un non so che di speciale ed ipnotico, quel loro movimento delicato e sorprendente che mi rapiva ogni volta. E durante quel suo strano rito, i suoi occhi brillavano di stupore. Come se non avessero mai visto nulla del genere, come se fosse la prima volta. Da fuori sembrava fosse in equilibrio sullo spessore millimetrico di quella lama. Una lama che lo aveva portato tante volte a superare i suoi limiti. Una lama familiare, una di quelle che conosceva bene e che sarebbe riuscito a disegnare anche ad occhi chiusi. lo Io guardavo orgogliosa, anche se non sapevo cosa significasse tutto quello che faceva. Sapevo solo che lo faceva in un modo quasi filosofico. Come se fosse dovuto entrare in contatto con un mondo a parte. Osservava scrupolosamente i dettagli di quella lama, poi la poggiava sul tavolo, guardandola ed inclinando la testa da un lato, Sempre Io stesso. Poi la riprendeva in mano e se la passava fra una e l’altra, seguendone i contorni e misurandone gli spessori.

Io gli facevo compagnia mentre disegnava e seguivo la matita con lo sguardo. Mi piaceva passare il tempo con lui, i suoi modi erano pacati e mi davano come un senso di libertà profonda.

 

E io, nel mio piccolo, sapevo che stava costruendo qualcosa di molto più grande di lui. Sapevo che quelle lame che studiava per ore e ore nel suo ufficio, lo stavano portando lontano. Quelle lame che io guardavo con tanta curiosità, erano diventate la trama della sua vita.

Più passava il tempo, più mi chiedevo come mai quella sua passione per la barca a vela non lo avesse mai portato a comprarne una. Glielo chiesi un giorno, mentre eravamo al porto a guardare il tramonto. Gli chiesi come mai non volesse iniziare ad usare quel coltello da barca che portava sempre con sé.

Lui mi disse che lo aveva usato quand’era giovane, quando faceva quelle regate sfinenti da un porto all’altro, quando era innocente.

Innocente. Quella parola mi tormentava. Che cosa aveva fatto lui? Che cosa era successo su quella barca?

Me lo raccontò appena si sentì pronto a parlarmi di quella cosa tanto importante per lui.

“Stavamo facendo una regata, il mare era in tempesta e portava dentro di sé qualcosa di inquieto, come se si trascinasse le lamentele di un bambino al quale era stato impedito di fare il bagno, le lacrime di un adolescente che non aveva ancora capito come approcciarsi con il mondo reale, le preoccupazioni di una madre, gli impegni di un padre troppo assente. In quel mare e in quel vento che si era alzato, trovavano rifugio le storie di chiunque condividesse quello stesso angolo di cielo, c’erano anche la mia e quelle di. chi aveva deciso di imbarcarsi nonostante le previsioni lo sconsigliassero. C’era anche la storia di Leo, destinata a finire di lì a poco. Interrotta definitivamente per colpa mia. Il nostro destino era legato a una corda e a un’imbragatura che avrebbero permesso di trarci in salvo nel caso fossimo caduti in acqua. Quella corda che tagliai per sbaglio, quella corda che permise al mare di inghiottire Leo, quella corda tagliata che spezzò una vita. E quel coltello da barca che ho sempre con me è l’unico legame che ho con lui e con quel mare che se lo portò via.”