MIELE, CANNELLA E AROMA DI SANGUE

RACCONTO SEGNALATO

MANZETTI MAJA, SARCLETTI SIBILLA

Liceo “Carducci Dante” Trieste

 

Miele, cannella e aroma di sangue

Mentre suonava la campanella della prima ora, Jacob entrò in classe sospirando, si strascinò verso il suo banco e si lasciò cadere sulla sedia. Come tutte le mattine, il suo volto era segnato da scure occhiaie, il solito marchio dell’insonnia che lo tormentava, partorendo incubi e ombre di ricordi.

Il professore entrò nell’aula, inondandola col suo solito lezzo nauseante di tabacco. Sbatte la porta con un ghigno facendo sussultare gli alunni persi nei loro pensieri. Ciò non bastò a destare Jacob che, appena seduto, chiuse gli occhi e Morfeo l’avvolse tra le sue braccia.

Nella sua testa si erano già accesi i sogni e si ritrovò nella sua vecchia stanza, l’aveva riconosciuta dal soffitto ricamato dalle crepe e dall’intonaco rovinato,

Aveva sempre amato quella vecchia casa malconcia, non gli importava il suo aspetto o che si trovasse in uno dei quartieri più malfamati della Grande Mela. Quello non importava, perché là dentro c’era lei, la madre, sempre pronta a dispensargli carezze nei momenti difficili e a leggergli qualche riga di Peter Pan, la sua storia preferita, con quella voce dolce che riusciva a far scomparire il fremito del traffico, là fuori, su quella strada scurita dalle ombre di grandi aceri e di brutti pensieri.

Ma quel sogno lo tradiva sempre, alla fine, quando un improvviso vento gelido alle spalle gli faceva accapponare la pelle e scompigliare i capelli, portandosi via quei momenti di miele, di lei. Era quello il momento in cui il sogno si trasformava in incubo. Girò lo sguardo, in quel momento, sapendo già cosa aspettarsi: lei, la madre, stesa esanime sul pavimento, con la pelle bianca come quella di una bambola di porcellana, e una densa pozza rossa che si allargava sempre più sotto la sua schiena.

Jacob distolse subito lo sguardo da quella raccapricciante scena, ma quando si osservò le mani si ritrovò a stringere tra le dita, ancora una volta, quelle maledette forbici insanguinate. L’incubo si interruppe bruscamente e egli si svegliò sussultando sul banco di scuola, attirando tutti gli occhi dei compagni, e qualche sghignazzo, su di lui.

Tornò a casa con un brutto mal di testa e una nota disciplinare: nulla di nuovo, in fondo.

La giornata passò rapidamente. Alle cinque del pomeriggio il sole era già calato dietro i grattacieli, macchiandoli di penombra e dando spazio alla sera.

«Ragazzi, a tavola!», chiamò Kayce dal piano di sotto. Lei, la nuova moglie di papà, con più pellicce nell’armadio che cervello.

Jacob corse giù affamato per ingozzarsi di quella poltiglia verde che minacciava il piatto, senza preoccuparsi troppo di cosa fosse e che sapore avesse. A sedici anni si pensa solo a riempirsi velocemente lo stomaco, certe volte.

Fece per alzarsi da tavola, ma il padre, un uomo non molto alto ma robusto, l’afferrò per il braccio per protestare: «Potresti anche far finta di interessarti alla famiglia.., se la consideri ancora tale.»

Jacob alzò gli occhi annoiato, liberò il braccio dalla presa e sali in camera sua saltando gli scalini a due a due. Prima di chiudersi la porta alle spalle, sentì il padre borbottare dal salone: «Bel modo di ringraziare, per averti salvato da quel lurido orfanotrofio!»

Passò la serata a sfogliare fumetti fino a notte fonda e quando cercò di prendere sonno si trovò a girarsi e rigirarsi inutilmente nel letto, senza riuscire a chiudere occhio e a spegnere finalmente i pensieri.

Gli girava in testa sempre la stessa scena e la medesima domanda: perché era rimasto là immobile, come una statua di cera, invece di proteggere sua madre?

In preda all’agitazione, si alzò dal letto ed estrasse da sotto il materasso una fotografia ingiallita di lei e delle forbici ormai ossidate dal tempo. Quella piccola immagine rappresentava per lui una inesauribile, magica fonte di protezione, e osservandola ancora una volta liberò tutte le lacrime che finora aveva trattenuto, temendo di rivelare il suo dolore, nascondendolo al mondo dietro l’invisibile scudo di se stesso.

Quella foto doveva davvero essere magica, perché il ritratto che sfiorava con le dita emanava un profumo di cannella, di sua madre, e dalla finestra sembrò volare nella stanza, come una farfalla, la risata gioiosa di lei. Toccare invece quelle forbici arrugginite lo guidava verso altre emozioni: ripercorse con la mente tutti i sacrifici che sua madre aveva fatto per lui. Era solito spiarla da dietro la porta, mentre lei si prendeva cura delle acconciature delle sue clienti. Un’altra magia, quello che riusciva a fare, con veloci e aggraziate movenze: trasformava capelli biondi e neri, lunghi e corti, in magnifiche, colorate sculture.

Era bravissima nel suo lavoro, la miglior parrucchiera del pianeta.

Riuscì ad addormentarsi, con la mente pulita, le ombre svanite e i rumori della strada rallentati dal passo della mezzanotte.

La mattina arrivò in un lampo, la sveglia suonò alle sei in punto, facendolo trasalire. Giusto in tempo per vestirsi, lavarsi i denti e saltare sul primo autobus; direzione nord, noia, scuola. Mentre si allontanava sentiva sulla schiena, come spilli, gli sguardi curiosi dei vicini, i Robinson, che passavano il tempo a spettegolare sulla sua famiglia, e che lo guardavano sempre dall’alto in basso. Forse era colpa del suo aspetto trasandato. A casa, i pochi soldi erano destinati alle pellicce e ai desideri di Kayce, e a qualcosa da mangiare.

Dopo due ore strazianti di greco, suonò la campanella, liberatrice come non mai, e il corridoio si affollò di studenti. Uscendo dall’aula, Jacob notò una ragazza stretta in quella confusione, che sembrava brillare di luce propria, in quella mandria di teppisti. Difficile vedere una così, da queste parti poi… pensò lui. Infatti non era mai accaduto.

Era bellissima, con quei capelli corvini che le scendevano sulla schiena, il collo lungo da ballerina, la pelle diafana, quasi trasparente e uno sguardo a mandorla esotico e magnetico. Avrà il nome di una stella Chissà.

Da non crederci, somigliava così tanto a sua madre. Si stropicciò gli occhi, guardò ancora e la sua stella era ancora là, intenta a prendere un libro da un armadietto.

Non era un’illusione, allora. I loro sguardi si incontrarono, Jacob si senti il cuore in gola, mentre a lei si avvampò il viso, subito dopo aver forzato un sorriso.

Lei è quella per sempre, non può essere che così, si disse lui convinto.

Passò l’intera giornata a pensare a quella ragazza, a quella scoperta così inaspettata, scrisse pagine e pagine su ciò che provava e a disegnare sui quaderni di scuola le sue labbra rosee e carnose. Cambierò, pensò, lo farò per lei, basta fare lo stupido e prendermela con tutto e tutti. Scappare dalla gente…

Quella sera la cena a casa fu diversa dal solito, più serena. Senza la solita fretta di fuggire in camera e chiudere la porta in faccia al mondo. Il silenzio che aveva sempre regnato a tavola si spezzò, cambiò tutto. L’espressione dura di suo padre lasciò il posto a qualcosa che somigliava a un sorriso e Kayee, la mamma numero due, ne fu facilmente contagiata. Dopo sei lunghi anni Jacob si sentiva di nuovo a casa, avvolto dall’amore dei suoi genitori adottivi, e la notte da nemica si fece alleata, senza rivelare brutte sorprese.

Si risvegliò di buon umore, con un sorriso smagliante stampato sulla faccia e una nuova energia che gli scorreva in corpo. Arrivato a scuola, mentre aspettava il suo caffellatte vicino alla macchinetta, percepì un famigliare profumo di cannella. Lei, ancora lei, immaginò. Si voltò di scatto e non rimase deluso. La ragazza dagli occhi a mandola, la stella del corridoio, era a meno di un metro da lui.

Era arrivato il momento di parlarle. Si fece forza.

«Ciao, mi chiamo Jacob. Non ti ho mai vista qui, sei nuova?»

«Mi sono appena trasferita… ehi, quello è tuo no?», rispose lei facendo cenno alla macchinetta che aveva appena sfornato il caffellatte fischiando rumorosamente, come per avvisare il ragazzo. «Scusami, non mi sono nemmeno presentata, sono Naomi».

Una telefonata spezzò l’incantesimo, e l’imbarazzo del momento. La ragazza rispose alla chiamata, gli fece un cenno di saluto, forse anche un sorriso, si allontanò verso il portone d’ingresso e sparì dalla visuale. Così velocemente come era apparsa, se n’era andata, Ma Jacob camminava sulle nuvole, ora conosceva il nome della ragazza misteriosa, e l’avrebbe rivista di sicuro.

Durante il tragitto per tornare a casa non pensò ad. altro che a lei. Naomi. Naomi. Naomi.

Arrivato a casa, si fondò in camera e accese il computer. Mentre era in autobus aveva già pensato a tutto, il piano era quello di creare un falso account su un social network per mettersi in contatto con Naomi, poterla conoscere meglio e scoprire le sue paure, passioni, speranze e propositi. Qualsiasi informazione gli sarebbe stata preziosa. Usando l’identità fittizia di Alison Andrix, sedicenne amante della letteratura inglese e del pattinaggio artistico, che presto si sarebbe trasferita nella stessa scuola della ragazza, avrebbe di sicuro fatto centro. Una messa in scena che avrebbe potuto evitargli un rifiuto, o un passo falso, Con un’amica, anche se virtuale, Naomi avrebbe potuto confidarsi, e svelarsi.

Riuscì a trovare il profilo della ragazza, e le mandò subito un messaggio. Mentre aspettava una risposta, osservava, una dopo l’altra, mille volte, le fotografie di lei, Quel suo sguardo così ipnotico gli faceva mancare l’aria e tremare le gambe. Rispondi, dai, ripeteva fra sé e sé.

Giunse la sera e finalmente Naomi replicò al Hey’ di Jacob che si sentì pervaso da una sensazione così forte simile a quella di un ciclone che si infrange su una scogliera. Passarono giorni frenetici e lui, nelle vesti di Alison, riuscì a stringere un’intima amicizia con la ragazza dei suoi sogni, che gli confidò follie, trasgressioni, e tutto ciò che travolge durante l’adolescenza. Arrivò poi il grande giorno, quello della verità. Jacob, nascosto dietro quella simpatica ragazza britannica, si sarebbe rivelato a Naomi.

Jacob aspettò la campanella della prima ricreazione, si sistemò la camicia nuova nei pantaloni e si avviò verso il cortile. Quando vide la ragazza, esitò per un momento, poi fece un bel respiro e si avvicinò, cercando di nascondere l’imbarazzo, che balzava fuori arrossandogli le guance. Lei lo guardò perplessa, stava aspettando di incontrare Alison, non certo lui.

«Devo parlarti, Naomi», sospirò lui,

«Possiamo fare più tardi? Sto aspettando un’amica», rispose lei guardando l’orologio.

«La persona che aspetti è già qui. Insomma, senti… sono io Alison. Ecco, ce l’ho fatta a dirtelo» «Cosa?», disse lei corrugando la fronte. «Ma come fai a sapere… No, non ci credo…»

«Dovresti, invece. Queste settimane hai sempre parlato con me, non hai capito?» continuò lui.

«Ma ormai non importa, basta con le spiegazioni, quello che conta è che ora siamo qui, insieme» «Ma stai scherzando? Mi sono confidata conte, e adesso pensi di cavartela con due parole?» ruggì lei.

«Aspetta, io volevo solo…» replicò Jacob cercando di afferrarle la mano.

«Stammi lontano! Sei un bugiardo, oltre che un squilibrato. Lo sanno tutti che non ci stai con la testa, che parli da solo.., non ti avrei detto mai niente di me, se non mi avessi ingannato in quel modo schifoso. Non farti più vedere, stai lontano ti ho detto!», concluse lei sconvolta, prima di asciugarsi le lacrime, girare i tacchi e andarsene in tutta fretta.

Iniziò a piovere forte, Jacob restò immobile e lasciò che l’acqua facesse il suo corso, frustandogli la pelle e il viso. Che importava ormai? Non avrebbe certo potuto fare più male che vedere Naomi scappare via spaventata, come se avesse visto un mostro. Proprio così, gliela aveva letto in faccia.

Da quel giorno non la vide più a scuola, sembrava scomparsa nel nulla. Un buco nero. La depressione approfittò subito dell’occasione per tornare a tormentarlo. Si chiuse in casa per giorni, rifiutandosi di mangiare e di parlare. Il padre, dopo averlo sentito gridare nella sua stanza di giorno e di notte, non sapendo più come comportarsi, decise di portarlo da uno psicologo. Non sarebbe stato facile convincere Jacob, ma non c’era altro modo.

La prima seduta dallo specialista, presentato a Jacob come una sorta di amico di famiglia, per farglielo accettare, iniziò nel peggiore dei modi. Nessuna collaborazione. Scontro e silenzio. Ma lo psicologo, che aveva studiato il profilo del ragazzo, trovò presto la chiave universale per creare una connessione. Naomi. Bastò un nome per far cedere la corazza di Jacob, e spogliarlo di tutte le sue difese.

L’uomo iniziò a pensare che quella ragazza non fosse altro che un’allucinazione, un frutto tossico della fantasia del ragazzo. jacob si trovò presto costretto a dimostrare il contrario, e non esitò a mostrare allo psicologo una foto di Naorni, ingiallita e usurata dal tempo, simile a quella di un fantasma catturato da uno speciale obiettivo. Quel volto non era animato dalla giovinezza, era segnato dagli anni.

«Guarda bene, Jacob», gli disse lo specialista, «non sembra certo una tua coetanea. Ti somiglia, se osservi bene il viso. Sei sicuro che non si tratti di un’altra persona che ti è cara? Forse tua madre, Può essere?»

«Non azzardarti più..a.prkinnneiare. quel porne», replicò secco il ragazzo, «Maipiù. Non sai.niente,. di. lei»

«La risposta è davanti ai tuoi occhi, se vuoi vederla», continuò lo psicologo. «La ragazza non esiste, lo sai meglio di me; è uscita dalla tua mente. Può capitare, in presenza di un forte trauma.., a volte la follia sembra fatta di carne e ossa… vuoi parlarmi della morte di tua madre?»

Jacob si tappò le orecchie e implorò: «Basta, per favore, voglio andarmene da qui. Tu non sai…»

«Aspetta, questa è l’occasione giusta per affrontare la cosa, e liberartene. Dimmi qualcosa di tua madre, qual è l’immagine che ti appare? Dove la vedi, in sogno?»

La mente di Jacob, a quelle parole, fu investita da una raffica di ricordi. E quella terribile notte usci dall’oscurità per rivelarsi di nuovo, nuda e cruda. Ora lui poteva rivedere tutto, con chiarezza, come durante la scena di un film. L’assassino che squarcia il petto della madre con le forbici. Il suo respiro accelerato. Lo sguardo straziato di lel. Il lampo della fine, là dentro, e la macchia nera della paura, poco prima. Il sangue, lo scintilictre delle lame.

Troppo, per Jacob, preda di un vero e proprio cortocircuito del dolore, che si trovò costretto a balzare in piedi, afferrare le forbici sulla scrivania del dottore e ficcarle con forza in quel cuore che gli stava rivelando la verità, di nuovo. La terribile notte. La morte, che ha un odore così dolciastro. Miele.

Jacob si guardò le mani. Si rese conto di stringere tra le dita le forbici insanguinate. Provava compiacere nel vederlo esanime, per terra.

“Riesci a percepire il dolore che provo ? Riesci a sentirlo adesso?”

Finalmente quel grosso macigno che lo aveva sempre oppresso era scomparso.

Era finalmente libero.

 

Due mesi dopo il suo stato mentale si era ulteriormente aggravato e le tante medicine che gli davano gli infermieri ebbero lo stesso effetto dell’alcool buttato sul fuoco.

Nel buio più assoluto si sentì provenire dalla cella di jacob delle urla strazianti,

Aveva gli occhi spalancati e continuava a ripetere un solo nome: Naomi.