RITAGLI DI FOLLIA

SECONDA CLASSIFICATA

JORGE MIO MARIA SOL

Liceo “Grigoletti” Pordenone

 

 

Ritagli di follia

Silenzio.

A riempire la stanza c’è solo il silenzio e non uno di quelli gioiosi, né imbarazzanti e nemmeno cupi; nessuno dei precedenti aggettivi è degno di descrivere questo silenzio. I suoni vuoti affollano l’aria, ripercuotendosi assiduamente in ogni dove e il modo omogeneo con cui il nulla rimbomba mi fa mancare il respiro. li silenzio regna tiranno, soggiogando il tempo, opprimendolo. Non è dunque gentile, non bisbiglia alle orecchie dolci suoni; esso corre pesante lungo la schiena, imprimendo le sue orme possenti sulla carne, mentre sbraita parole mute e fa danzare la sua frusta con sordi schiocchi.

Il silenzio è una delle poche compagnie che ho, d’altronde cosa dovrei aspettarmi? Sono segregato in questa cella da moltissimo tempo, dove il bianco delle pareti predomina su ogni cosa. La mia unica fortuna è essere riuscito a farmi recapitare dei fogli di carta e un paio di forbici; per ottenere queste ultime ho dovuto persuadere a lungo lo psicologo che ogni tanto viene a farmi visita, “Solo se farai il bravo” ha detto. Non ho mai avuto un cane, ma credo che questa sia più una frase da dire ad un cane che ad una persona.

D’altra parte io sono solo un matto, un “caso perso”, mi hanno definito in moltissimi modi, o perlomeno ci hanno provato. Uno dei miei scopi è proprio quello di evitare di essere etichettato, ma l’Uomo ha prontamente forgiato un termine speciale per quelli come me: Pazzo. Forse perché non parlo con nessuno? O molto più probabilmente per ciò che faccio: ritaglio sagome. Ogni singolo minuto che passo all’interno di queste mura io lo utilizzo per tagliare figure di uomini con le mie forbici; ed evidentemente all’Uomo non sta bene.

Ho difatti imparato molto tempo fa che quando l’Uomo teme qualcosa, tenta di contenerla e fare in modo che non divampi. Una scintilla si è accesa in me e con gli anni le fiamme hanno iniziato ad intrecciarsi e vorticare pericolosamente, questo non è sfuggito all’occhio di falco dell’Uomo, che mi ha rinchiuso in questa patetica stanza. Ha, per così dire, seppellito il problema, sperando che offuscasse e diventasse solo un ricordo perso nei meandri più nascosti e contorti della memoria; ma il fuoco non ama essere contenuto.

Infatti io non demordo, continuo a ritagliare le mie figure. Secondo il mio psicologo questo gesto è la causa della mia pazzia, ma in realtà ne è la più diretta conseguenza. E forse sono davvero matto, come mi definiscono loro; pazzo come Van Gogh, con l’unica differenza che lui schizzava la tela, io ritaglio figure, lui creava, io distruggo. Farmi definire pazzo è il solo modo che ho di sfuggire alla crudele realtà, da matto quale sono posso fare qualsiasi cosa io voglia senza essere giudicato e questo fa paura all’Uomo: ecco perché sono rinchiuso qui, in modo che non influenzi qualcun altro con le mie idee.

A me sta bene così, io continuo a ritagliare le mie figure e loro vivono una felice e vana esistenza, io sono riuscito a fermarmi e a rendere indifferente la frenetica corsa del mondo, mentre loro ne dipendono. A cosa serve tutto quello che facciamo? Chi ha deciso ciò? E soprattutto perché continuiamo a farlo? lo mi sono posto molte volte queste domande ed ecco perché eseguo solo quello che la mia mente mi dice di fare: ritagliare sagome di carta.

E’ più sensato stare qui a tagliare figure, piuttosto che condurre un’ordinaria vita, divenendo solo pedine di un gioco condotto da un paio di marionette mosse da chissà chi e limitando la visuale a causa di un paraocchi che impedisce una visione completa. Preferisco essere schiavo del silenzio, che un misero bisbiglio nel frastuono; desidero essere una pennellata violenta scagliata per mano d’un irato pittore, che un omogeneo tratto dipinto con noia.

Le mie mani persistono nel folle movimento, le lame sfilacciano la carta che è costretta a piegarsi nel volere delle forbici e il foglio assume la forma che io decido. Le mie giornate sono cullate dallo sfrigolio dei brandelli, un suono secco e nitido, un mormorio perpetuo, eterno. Da molto non odo nemmeno il flebile sussurro della mia voce, che pare un ricordo, poiché il suono delle forbici, nella sua debolezza, è il più forte che io possa sopportare.

Tutto ciò che prima mi circondava in quell’ambiente ostile pareva volesse risucchiarmi tra le sue spire del male, ma ora in questa mia prigione niente è più capace dì entrare o dì uscire. Solo il mio ingrato pensiero vagabonda spaesato in lontane lande mai da me visitate e peregrina senza meta tra prati sognanti, fiumi di parole in piena e stelle bugiarde. Le mie idee seguono le curve linee delle sagome che le mie dita laboriose creano, cercando dì cogliere anche solo una briciola del sapere, di trovare un misero e scarno accenno di risposta alle mie tortuose domande.

E forse sembrerà da pazzi sprecare l’esistenza a porsi quesiti a cui probabilmente mai riceverò risposta, ma tutto è relativo; lo sa per esperienza il Sole, lui che, minuscolo per l’infinito, è per gli uomini la più grande stella.

Siamo fogli di carta in bilico tra una lama e l’altra di un paio di forbici che continuano incessantemente ad avvicinarsi. Passiamo tutta la nostra vita mantenendo l’equilibrio: perché la carta è fragile, basta una folata di vento e voliamo via; ma è solo un modo per rallentare l’inevitabile. Alla fine le forbici si chiuderanno, tagliandoci a metà e farà male. Un foglio strappato non torna come prima, un brandello di carta tagliato non potrà mai più essere forte e resistente come prima. Quindi che senso ha ritardare la nostra fine, se verremo comunque tagliati a metà?

Eppure le mie sono solo parole vuote, suoni senza corpo, che echeggiano nel silenzio più totale e che nessuno è mai stato in grado di ascoltare, poiché per farlo bisogna andare oltre l’apparenza di un misero gesto: un taglio sulla carta; per comprendere il mio effimero ideale si devono infrangere stereotipi ed essere pronti a scivolare via dalle tenaglie della società. Nessuno, dunque, vuole perdere la sicurezza della quotidianità, rinunciare alla normalità, per inseguire il barlume di follia che, come fosse una lucciola, vaga in una cupa e minacciosa notte di tempesta. E’ più facile chiudere gli occhi, negare, nonostante questo sia il modo più immediato per cadere nell’oblio.

Le mie forbici danzano vorticosamente e sfilacciano la carta, le lame curvano, giocando con il foglio e il freddo metallo sì diverte ad accarezzare la liscia superficie bianca; la mia mano segue l’andamento dell’oggetto e il suo folle desiderio di completare l’opera fatale. Tutto ciò che mi resta sono le mie sagome, specchio della società odierna. Decine e decine di uomini senza volto, privi di espressione, soffocati dalla maschera bianca che costantemente indossano, uguali ed identici ad altri, forgiati dallo stesso paio di forbici.

E prigioniero della mia pazzia, incompreso da tutto e tutti, continuo a cercare di dar voce ai miei pensieri mediante questi futili fogli di carta e queste lame impregnate del peccato che a suo tempo mi colpì: la follia. Schiavo del silenzio, persisto nel ritagliare sagome, poiché alla fine non resta nulla, se non il nulla che ci è intorno.