FORBICI

TERZA CLASSIFICATA EX AEQUO

LAVAGNINI CATERINA

Liceo “Carducci Dante” Trieste

Forbici

Taglio la frutta con minuziosità. La radio mi informa delle notizie più rumorose della settimana. Pochi deboli raggi del sole entrano dalla finestra. In controluce vedo qualche granello di polvere sollevarsi e volare lento, descrivendo dei disegni circolari verso l’alto. Sento uno scricchiolio provenire dal corridoio. Il passo è leggero e controllato: sarà Luca. Apre la porta, che cigola un po’, ed entra. Dopo qualche minuto sento l’acqua del rubinetto che scroscia. La giornata è iniziata. Sorseggio il mio caffè e osservo la tavola apparecchiata davanti a me, tutto disposto come ogni mattina, come se ogni mattina seguissi delle regole non scritte che mi portano a riporre lo zucchero sempre nello stesso angolo e le tazze sempre alla stessa distanza dal bordo del tavolo e i biscotti al centro. Il primo corpicino addormentato entra nella stanza.

“Buongiorno Luca, dormito bene?”

Un mugugno d’assenso è la risposta che ricevo. Si siede e prende un pezzetto di mela. Arriva Paolo con Sara. Giochiamo alla famiglia felice. Uno dopo l’altro si alzano dalle loro sedie è seguono i programmi della giornata, le strade già tracciate.

E mi ritrovo a guardare fuori dalla finestra, ancora il sapore del caffè sulle labbra, ancora nella mente l’immagine dei miei bambini che mi salutano. Sono rinvigorenti i preziosi momenti con i miei figli, quegli istanti nei quali abbiamo deciso, io e Paolo, che fingere è ancora necessario. Gli unici attimi nei quali posso ancora vivere come una mamma, una donna, un essere umano. Non vengo giudicata, compatita. Strano quanta vita mi pulsa nelle vene proprio quando non sono io. Quando dimentico la nera creatura che si nutre dei miei tessuti. Mi risveglio dal vortice dei miei pensieri che mi aveva già portata lontana.

Mi vesto. Chiudo la porta alle spalle. Il rumore delle mie scarpe risuona sulle scale. Ricordo le stoviglie della colazione abbandonate sulla tavola, la confezione dei biscotti ancora aperta.

Scambio qualche cenno e qualche sorriso con il vicinato, senza pronunciare alcuna parola. Oggi ci sono solo io con me stessa.

Mi ritrovo di fronte alla porta. L’insegna è luminosa, accecante.

Entro dentro il piccolo locale, le pareti sono rosse. La campanella sulla porta tintinna al mio passaggio. Non c’è possibilità di passare inosservata, non c’è alcuna possibilità di potermi confondere. Come se portassi un segnale di riconoscimento.

“Ehi ciao, sei arrivata. Sei pronta?” Faccio un cenno con la testa. Lo spazio è vuoto, la scena è tutta per me.

Mi fa sedere sopra alla sedia girevole, ruota il sedile sotto di me e mi ritrovo davanti allo specchio. Guardo con attenzione e stupore quel viso che tra poco cambierà. Sono sempre concentrata ad analizzare ciò che si trova dentro di me, a ciò che si trova fuori posto, a ciò che cresce più del dovuto. Ho perso il contatto con il mio volto, ho dimenticato di osservare quei pochi centimetri di pelle che le persone ricordano di me. Sono solita combattere le mie battaglie interne, le guerre contro il mio stesso corpo, che ho dimenticato il mio aspetto esteriore. Bene, tanto dovrò abbandonare per sempre l’immagine di me che ho presentato tino ad adesso.

Il carrellino cigola quando percorrere pochi metri per giungere accanto a me. Sopra forbici, pettini, rasoi, bottigliette, lozioni, spazzole, forbici. Forbici.

Si pone dietro alla mia seduta, vedo il suo viso riflesso nello specchio. I suoi occhi cercano i miei. Un respiro profondo. Entrambi i toraci si sollevano contemporaneamente. Deglutisco. Prende lo strumento tagliente in mano. La presa non è sicura: un tremolio leggero si propaga lungo le dita.

“Ti ricordi quando ti ho tagliato i capelli per sbaglio? Mi avevi portato via la bambola e mi ero vendicata in questo modo.”

“Certo che me lo ricordo, sono andata in giro come una paperella spelacchiata per tre settimane. Non succederà anche questa volta, vero?”

Il viso riflesso nello specchio sorride, ma un velo di tristezza macchia l’apparente felicità che si era sprigionata dagli occhi.

Seguo il percorso che disegnano i suoi occhi, che si rivolgono, concentrati, sulle ciocche delicatamente appoggiate sulle mie spalle. Prende qualche ciuffo tra le dita. Le fibre scivolano tra i suoi polpastrelli. Tasta la consistenza, percepisce le lunghezze.

Poi, con decisione, un rapido movimento della mano taglia l’aria, provocando un fruscio che rimbomba nel silenzio. E la prima ciocca di capelli vola a terra. Il gesto è stato improvviso e inaspettato. Non riesco a trattenere una piccola lacrima che scivola sulla guancia. Il tragitto che ha percorso luccica sulla pelle.

“Continuo?” “Non ti fermare.”

Le mani sicure si librano nell’aria volteggiando, rincorrendosi. E mi perdo a seguire quello sfiorarsi di nocche, polpastrelli che si incontrano per salutarsi subito dopo. A volte si l’emano, l’artista si ferma per apprezzare il risultato e studiare la mossa successiva.

Appoggia l’oggetto tagliente sul ripiano, produce un suono metallico delicato, quasi impercettibile. Ha riposto un’arma solo per impugnarne un’altra. Attacca il rasoio elettrico alla presa di corrente. Con lo strumento stretto in mano cerca di nuovo i miei occhi nello specchio.

in questo istante che la mia attenzione si sposta di nuovo sul mio volto. I capelli sono già più radi, il mio viso sembra già più nudo, scoperto. Fragile.

“Vuoi farlo tu?”

più una preghiera che un invito. Mi passa il rasoio, i nostri corpi si sfiorano. Avvolge la sua mano intorno alla mia, lo strumento stretto tra le dieci dita. Sento una goccia picchiettami sul capo. Porto la mano un po’ più in alto verso la testa, sono io che dirigo i movimenti. Respirare diventa più difficile. I nostri corpi risuonano di piccoli singhiozzi. Entrambe tentiamo di dimostrare la nostra forza all’altra. Come sempre.

Una perenne gara, un’eterna dimostrazione di superiorità. Le lacrime, però, dimostrano con chiarezza le paure, le incertezze, le crepe che scalfiscono le maschere che vestiamo.

Attivo lo strumento con l’indice. Un ronzio vibra nell’aria. Avvicino ancora di più. La mano di mia sorella segue le mie indicazioni. I corti ciuffi di capelli, troncati dalle radici, volano in alto di qualche centimetro, poi discendono verso il pavimento piastrellato.

Lei sta raccogliendo ciò che rimane della mia antica bellezza, di ciò che consideravo espressione della mia femminilità, del mio essere donna. Io, invece, sono improvvisamente sola davanti a me.

Una testa nuda. Al tatto risulta quasi piacevole. Paradossalmente, la memoria mi riporta alla mente le codine che la mamma mi faceva alle elementari, l’acconciatura complessa del giorno del mio matrimonio, la prima tinta dai colori pazzi. Ora non c’è più niente, se non l’ombra dei ricordi che contorna la mia nuca.

Ha finito di spazzare, mi guarda allo specchio, dove, nuovamente, cerchiamo un contatto.

“Ho dei foulard se vuoi.” Faccio un impercettibile segno con la testa. Dopo qualche istante torna con un tessuto color mare. Mi tocca delicatamente la cute, tocca l’ombra impercettibile che mi avvolge. Lega la stoffa, creando più strati sopra alla mia pelle.

Finito. Tutto finito.

“Sei bellissima. Non dimenticarlo mai.”

Sorrido. Un sorriso amaro.

Mi alzo.

Mi volto ancora una volta verso lo specchio. Incrociamo di nuovo i nostri sguardi. Silenziosamente mi comunica che mi è vicina. Silenziosamente la ringrazio. Silenziosamente il mio tumore si sta espandendo. Silenziosamente il mio tumore mi sta uccidendo.

Silenziosamente esco.