IL DESTINO DI UN PUGNALE

IL DESTINO DI UN PUGNALE

 

“Oh, pugnale benedetto, questo è il tuo fodero! Riposa qui dentro e fammi morire.”, furono le ultime parole che udì. Nessuno mi aveva mai utilizzato in quel modo. Io, glorioso pugnale e fedele servitore della casata Montecchi, minaccioso compagno di avventure, disavventure e onori e lodi senza fine, cadevo nelle mani della ragazza amata dal mio padrone e, senza poterlo impedire, volgevo la lama verso il suo petto e con la forza disperata delle sue braccia lo trafiggevo. Ero impotente, come d’altronde lo ero sempre stato e come lo sono adesso, ma mai come in quei pochi attimi me ne resi conto. Per la prima volta avevo commesso qualcosa che non avrei voluto commettere. Per la prima volta nella felicità della morte che con tanta fedeltà avevo sempre portato al mio giovane signore, io non trovavo che pentimento e ingiustizia. Le guardie arrivarono, trovarono i due giovani, privi di vita, l’uno accanto all’altra, nel loro ultimo abbraccio d’amore, e trovarono anche me. Mi sfilarono con rabbia, si sporcarono del sangue che la mia lama aveva rubato all’innocente Capuleti, cercarono di pulirmi dalle tracce che rimanevano di ciò che era avvenuto. Ci riuscirono, ma non furono altrettanto abili da privarmi della memoria.

Dopo quel giorno, le celebrazioni furono molte, angosciose, piene di rimorsi e tentativi di pace, ma privi della sincerità necessaria per rendere quei giuramenti persistenti nella storia. La vicenda dei due ragazzi finisce qui, ma voi non vi siete mai chiesti che fine abbia fatto il pugnale. Inizio con il dirvi che il corpo di noi lame ci abbandona quando il destino lo crede opportuno, e così la nostra anima vaga fino a impossessarsi di un nuovo rivestimento che ci faccia trovare il nostro posto nella vita. Evidentemente io avevo già trovato il mio. Dalla realtà della vicenda di Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti, ho viaggiato in tutto il mondo, ora come coltello d’artigianato, ora come pugnale di seconda mano, ma ho in ogni caso trovato la stessa fine alla mia storia. Anche se il mio padrone cambia aspetto di secolo in secolo, sono sempre il fedele pugnale di Romeo, porto a termine le sfide di cui già ho avuto esperienza, e concludo trafiggendo impotente il petto di Giulietta, la quale muta figura anche lei. Per farla breve, rivivo ogni volta la storia dei due giovani innamorati, su un palcoscenico, acclamato da una folla emozionata, che applaude senza lasciarmi modo di spiegare quanto il dolore sia opprimente, quanto un solo silenzio sia cento volte più consolatorio e comprensivo di mille applausi. Non mi dispiace considerarmi il padre di questa storia, ancora più fortunato di Shakespeare, perché ho potuto vivere questa vicenda ogni volta, e ogni volta scoprire come è mutata nel tempo, come i personaggi si approcciano e come gli spettatori la accolgono. Miseramente mi accorgo che nel mondo il sacrificio dei due giovani è servito a poco e a nulla; il gravoso sentimento di ingiustizia e di lotta contro il mondo che manipola e distrugge, dura solo nell’immediato momento in cui il pubblico assiste allo spettacolo. Gli attori durante le prove litigano talmente tanto, che è quasi un miracolo riuscire ad arrivare alla scena finale. C’è chi si lamenta dei vestiti: “Queste vecchie stoffe prudono tantissimo, non riesco a recitare con questo fastidio costante!” e in risposta si sente: “Sai quanto ci sono costate?”. Ovviamente c’è sempre chi deve seminare discordia: “Cosa stai dicendo? Non è mica questo il verso!”, oppure: “Chi ha tradotto questo copione? Non rispecchia l’originale!”. Infine ci sono quelli che devono cercare di cambiare qualcosa: “Perché non improvvisiamo sulle battute, perché non cambiamo ambientazione, perché in questo atto non fai il tuo ingresso in questa scena?

No, sarebbe meglio se mentre lei parla, tu cominciassi ad incamminarti!”, e sono convinti di avere ragione. Il momento migliore, però, è alla fine dello spettacolo, quando i più critici esclamano: “É andata malissimo. Tu non ricordavi una sola battuta, tu non entravi mai al momento giusto. Che compagnia da quattro soldi!” e si finisce a suon di urla. Ho girato molto, ho conosciuto tantissimi attori, tantissimi teatri, tantissimi registi. Più o meno tutti vantano gli stessi punti di forza e hanno più o meno le stesse debolezze. Però, se dovessi proprio scegliere, la compagnia migliore con la quale ho vissuto è stata proprio l’ultima, quella che dopo anni di cure mi ha tradito, abbandonandomi in questa soffitta. È una comitiva italiana, che lavora bene e in modo pacato, senza insulti o rivendicazioni. Prima di descrivere la mia vita fino a qualche mese fa, però, vorrei raccontarvela sin dall’inizio. Ebbene… Il destino mi ha dato l’opportunità di nascere dalle abili mani di un vero artigiano, famoso e rispettabile. Non conosco il suo nome, ma ascoltandolo discutere con i clienti della bottega in cui sono nato, sentivo spesso dire: “Questa è una delle antiche botteghe Maserin, venditrice di articoli di coltelleria d’artigianato per tradizione, che ha portato la città di Maniago a essere denominata “Città dei coltelli”. Sentire queste parole mi riempiva di orgoglio e avvertivo la mia provenienza, proprio come riuscivo a sentirla ai tempi della mia gloriosa appartenenza alla casata dei Montecchi. In questa vita il mio aspetto mi soddisfa molto. Sono un bel coltello a punta fissa, senza affilatura, con il manico in cuoio levigato e liscio, largo sui fianchi, la guardia in ottone e il fondello in alluminio. Ho una lama inossidabile che sembra la punta di una vera lancia, lunga 20 centimetri; insieme al mio manico mi porta ad una lunghezza del tutto rispettabile di 32 centimetri. Avevo un fodero in cuoio puro molto accogliente, ma, forse per l’abilità del mio artigiano, pur essendo un coltello della categoria sopravvivenza, sono stato adocchiato da questa compagnia teatrale come sostituto ad un pugnale da teatro. Sono stato venduto al regista dello spettacolo in una giornata di primavera. Ricordo ancora perfettamente quando mi portò avvolto nel mio fodero nella sala prove e mi consegnò agli attori. Appena mi sollevarono ci fu un bisbiglio accigliato, poi il regista mi descrisse, parlò della mia provenienza, e la compagnia lo ringraziò con emozione. Finalmente avevano un sostituto per il vecchio e pesante pugnale in selce. Da quel momento sono sempre stato trattato con cura. Ad ogni spettacolo combattevo contro me stesso per rivivere quell’esperienza traumatica che mai avrei dimenticato, per fingere di trovarmi ancora nella mia vera epoca, tra le mani del mio unico padrone, come se i secoli di storia non fossero mai passati e la sua morte mai avvenuta. Come ricompensa di queste sofferenze, subito dopo la fine di ogni spettacolo venivo pulito, lucidato e riposto in una piccola scatoletta foderata, in attesa di una nuova esibizione. Lavorare con le compagnie teatrali mi ha aiutato a superare la paura che ho vissuto al momento della morte della giovane Capuleti, perché ciò che trafiggevo non era più carne innocente, ma un piccolo cuscinetto gonfio sotto la veste, e ciò che rubavo non era sangue né la vita di una ragazza, ma semplice pittura rossa. Vedere alla fine della rappresentazione Romeo e Giulietta alzarsi, rivolgersi verso gli spalti insieme agli altri attori, e sorridere con gioia, è sempre stata la mia parte preferita; mi ricordava che a tutto vi è rimedio. Come “padre” della vicenda mi inteneriva vedere l’intesa particolare fra gli attori che interpretavano i due giovani innamorati. Non sono un uomo, ma secondo me quello che separa gli uomini dalla comprensione del sacrificio di questi due giovani è l’immedesimazione nella realtà. Io, la semplice anima di un pugnale, ho potuto viverla quando ero ancora inconsapevole, quando la finzione non esisteva, e questo mi è di grande aiuto nel capire quanto l’essenziale sia invisibile agli occhi e come il mondo desideri cambiare e migliorare.

 

Quello che volevo fare fino a qualche mese fa era insegnare tutto questo alla gente con la mia compagnia. Avrebbe forse funzionato se non fosse arrivato il nuovo coltello da teatro per professionisti, con la lama retrattile e il manico più stretto e pratico del mio. Ho cominciato a comparire sempre meno frequentemente negli spettacoli, finché non mi hanno più degnato di uno sguardo e mi hanno portato qui, in questa soffitta del teatro, riponendomi in un polveroso scatolone, fra tanti altri vecchi coltelli, molti dei quali già arrugginiti. Ho paura di diventare vecchio e inutile come loro. Adesso che la mia ultima vita mi scorre davanti comprendo che anche stavolta non sono riuscito ad accettare il mio posto nell’universo, che non mi sono poi tanto impegnato per cambiare le cose. Non ho neanche un nome. Ci sono giorni in cui spero che il destino mi faccia giungere al momento di un nuovo inizio, ma poi ricordo che tutte le mie vite passate sono state ingiuste… il mio mondo è il palcoscenico, ma non sono mai stato sotto la luce dei riflettori. Noi utensili viviamo all’ombra del mondo pur essendo spesso protagonisti, siamo manipolati dall’uomo ed è impossibile opporsi al suo volere, veniamo considerati armi pericolose quando in realtà le uniche armi da cui proteggersi sono le mani umane. Infine ho riflettuto… La mia anima di pugnale che naviga nella storia non può far altro che ricordare e rimanere per sempre fedele al mio signore e alla sua amata. Il mondo non si chiede mai cosa provino loro due, o come debba essere la loro vita nella morte, perciò spero di continuare a vivere finché non gli renderò onore come meritano, finché non riuscirò a ferire Giulietta con l’amore di un servitore che salva nella pace i propri padroni.

Prenderò finalmente il mio posto nella vita.

Sono pronto!