OLTRE IL MURO, LE STELLE

OLTRE IL MURO, LE STELLE

 

Da due notti mi aggiro come un animale braccato in questo villaggio fantasma: Gurugù. Sono le undici di una notte senza luna. Imbocco un sentiero che serpeggia in discesa attraverso il bosco.

Oltre quella collina c’è Melilla, la Spagna, l’Europa. Calpesto gli arbusti spinosi che ostacolano il mio cammino. I sandali sono ormai sfasciati, le ferite sulle piante dei piedi fanno male. Lascio alle spalle pini, querce, eucalipti, sentinelle mute della mia paura, della solitudine, dell’angoscia che mi assale ad ogni passo, ad ogni più piccolo rumore.

Oltre la collina, le reti di recinsione che circondano Melilla. Per ora la speranza di non essere aggredito dai senzatetto marocchini. Quei ladruncoli hanno coltello facile e visto che operano in aperta campagna la polizia locale si disinteressa di quello che etichetta come “regolamento di conti tra vagabondi”.

Sento dei passi in lontananza, accelero, le ferite sanguinano ma vado avanti con la forza della disperazione, della determinazione di chi non ha scelta. Uno scricchiolio. Mi appiattisco sul terreno umido. Ne percepisco l’odore acre, il sapore aspro e pungente. Respiro a fatica. Vorrei sprofondare nel ventre caldo della Madre Terra affinché mi accolga e mi protegga. Io la madre l’ho persa dieci anni fa, avevo sette anni, una malattia irreversibile prodotta dall’inquinamento delle falde acquifere del fiume Odaw, nel Ganha, dove risiedevamo; una discarica a cielo aperto. Da lì un’odissea attraverso il Burkina Faso, il Mali, l’Algeria, il Marocco. Una vita tormentata sospesa tra paura e speranza.

Qualcuno mi punta un coltello tra le scapole, l’odore della terra è adesso odore di morte. Attendo l’affondo. Sento la lama bucare la stoffa logora della camicia. Poi una voce rauca mi intima di alzarmi, comprendo la lingua. Mi giro. Mi metto in piedi, traballante, il fiato corto. Non è una guardia, sembra invece un disperato come me.

Dopo alcuni scambi di parole diffidenti e ostili comprendiamo che abbiamo lo stesso obbiettivo. Raggiungere Melilla e saltare oltre le recinsioni. Mi ricorda che la sommità dell’altissimo muro è composta da centinaia di lame taglienti come rasoi.

Mentre procediamo sul terreno impervio mi racconta che solo un mese prima quattrocento tra uomini e donne avevano tentato di raggiungere l’enclave spagnola: duecento di loro erano rimasti bloccati tra due recinsioni di confine ma formalmente già all’interno del territorio spagnolo. Tuttavia rispediti indietro erano stati consegnati alla polizia marocchina che aveva usato violenza, provocando numerose vittime.

Proseguiamo in silenzio. Ora possiamo intravedere le barriere di filo spinato erette lungo il perimetro di confine.

Maponka, questo è il nome del mio nuovo compagno di viaggio, ha un appuntamento con un corrotto della guardia civìl che presidia barriere e spiaggia. Mi racconta che la frontiera è un vero e proprio “bizness”. Il denaro per utilizzare le fantomatiche e altissime scale a pioli forse basterà per entrambi. Il mio amico è generoso. Una briciola di fortuna spetta forse anche a me.

Un’ombra dietro la radura ci fa cenno di raggiungerla. Il cuore batte a mille. La Spagna è a un passo, l’Europa a due…come pure una nuova vita, quella sognata mille volte sotto cieli senza stelle, tra voci e suoni di una natura selvaggia e di un’umanità ostile e corrotta.

L’ombra prende voce, definisce l’accordo. Tutto sembra stabilito. Alla “scalata” di Maponka dovrebbe seguire la mia. Attenderò nell’ombra il mio turno senza fiatare, quest’attimo infinito che vale una vita intera. Sono certo che oltre il muro ci attendono le stelle.

La scala è ben fissata, il mio compagno sale agile come un felino in cattività verso la libertà. È in cima, sembra che anche la scala dalla parte opposta si trovi al suo posto. Poi delle grida, grida lancinanti. Fendono come una lama tagliente l’immobilità assoluta, il silenzio di questa notte nera. E poi un tumulto di voci, alterate, aggressive, sparse.

La scala sembra ora precaria, viene rimossa. Mapanka resta appeso, le gambe cercano invano un appoggio, le braccia annaspano su quell’orlo assassino. Le urla si fanno sempre più flebili, poi un tonfo, secco. Il corpo stramazza a terra. Un fascio di luce illumina il liquame nero che velocemente si allarga intorno a mani e braccia segnate da lunghi tagli. Vorrei soccorrerlo e invece sparisco inghiottito dalla radura, ancora una volta animale ferito e sanguinante nel corpo e nell’anima, mentre ogni cellula urla disperata il suo dolore.