RICORDI INCISI

RICORDI INCISI

 

Esiste un posto, nel lago, con le barche abbandonate dai marinai. La gente ci va per stare da sola, sussurra i suoi segreti alle libellule. Lì il sole non sorge e non tramonta mai: il cielo è sempre tinto di un viola tanto denso da gocciolare sui cappelli delle signore. Tra i cespugli di rododendro e i minuti arbusti ispidi, spicca un massiccio tronco di quercia, adibito a panchina. Il suolo circostante è cosparso di sigarette consumate a metà e pensieri tristi.

Se, seduto su quella quercia, aguzzi la vista, il riflesso cupo del lago ti mostrerà i visi dei ragazzetti che trascorrono pomeriggi a scombiccherare le loro emozioni su diari segreti. Eppure tra i tanti giovani volti se ne scorge uno tutto cosparso di rughe, con le sopracciglia increspate e la giacca spolverata di piccoli frammenti di legno.

Fischiettava. Il canto non era mai stato il suo forte, le note uscivano tutte spezzate e stonate. Dunque, fischiava: contraeva le labbra e soffiava, prima dolcemente e poi sempre più vispo. La musica sembrava allontanare quell’assordante silenzio che tormentava le sue giornate.

Il lago era sempre tranquillo alle sei del pomeriggio. A terra i mozziconi di sigaretta spuntavano più veloci dei fiori. Stava seduto per ore a fissare le barche che ondeggiavano assieme all’acqua bruna di delusioni. Chissà quante pietre erano state scaraventate con frustrazione in quelle acque grigie.

Ogni giorno, seduto su quel tronco spigoloso, le sue mani operose si mettevano al lavoro, abili e veloci. Il quasi impercettibile tremolio della mano destra faceva danzare la piccola struttura lignea sulla quale stava lavorando, ma la fermezza gelida della sinistra era la garanzia della perfetta riuscita della sua opera.

La mano sinistra era sempre stata la sua prediletta: ci scriveva, ci cucinava, ci si pettinava. Era con la sinistra che impugnava il minuto coltellino che trasportava sempre con sé nella tasca posteriore dei pantaloni.

Trascorreva i pomeriggi così: a ripescare lo sfumato ricordo di un volto e tentare di riprodurlo su legno.

La memoria non era mai stata il suo cavallo di battaglia, ma, talvolta, certi volti, tante furono le volte in cui le sue dita ne sfiorarono i lineamenti, sarebbe stato in grado di riprodurli ad occhi chiusi.

Il suo lavoro era meticoloso. Per quanto arrugginita e sporca, la fine lama rimaneva vigorosa ed affilata: nemmeno il tempo era stato in grado di attenuare la sua infallibile inesorabilità.

Il coltellino si faceva strada sulla superficie lignea con una certa dimestichezza, mossa dall’esperta manona del suo artista.

Ostentava un’ammirevole destrezza, mentre a ritmo del suo fischiettio incideva il suo modellino. Riproduceva con innata accuratezza ogni minimo dettaglio del viso; fino all’ultima impercettibile ruga era collocata nel punto esatto della fronte, così come le quasi invisibili impurità della pelle e una qualche piccola costellazione di nei sul collo, le quali erano rappresentate a perfezione.

Era un vecchio signore, quello che trascorreva i suoi tramonti sulla riva del lago, ma il suo sguardo si illuminava quanto quello di un bimbo alla visione della sua opera conclusa. Scrutava minuziosamente la sua creatura, ruotandola su sé stessa e analizzandola in ogni sua microscopica imperfezione, e nell’esatto momento in cui ne scovava una, il coltellino agiva pronto nella sua correzione immediata.

Quel particolare pomeriggio i pensieri cupi annebbiavano la sua vista

quanto un paio di occhiali dalle lenti tutte polverose. La mano

destra faceva ondeggiare un piccolo busto di donna, il cui volto era

 

ancora da scolpire. Lo stretto corpetto era inciso nei minimi dettagli: come a catturare l’attenzione, la scollatura a cuore era impreziosita da una graziosa riproduzione di perle, al di sotto della quale i sottili filamenti dello spago si alternavano a miriadi di precise pieghettature.

Nessun uomo sarebbe stato in grado di scalfire con tanta sottigliezza tale veste, nemmeno confrontandola a quella di una modella in posa di fronte a lui.

I suoi incavati occhi grigi si colmavano di una scivolosa nostalgia, appena il pensiero sfiorava il ricordo della donna tanto amata. Rivolse uno sguardo all’infinita calma che lo circondava, prima di estrarre nuovamente il coltellino dalla tasca. Il suo sguardo si fece d’un tratto concentrato: la lingua si arricciò tra le labbra dischiuse.

La piccola lama si accinse a farsi strada sulla superficie levigata del volto, andando a incidere i tratti fondamentali che caratterizzavano l’immagine da sbozzare.

Non si accorgeva mai del tempo che trascorreva nella silenziosa baia; l’unico elemento che lo strappava dalla sua arte, riportandolo alla fredda realtà, era il cielo. Le nuvole tendevano sempre ad annidarsi in un umido vortice quando arrivava la sera: era questo il segnale che gli ricordava di posare la sua scultura e fare ritorno a casa. Quella sera, però, fu diverso.

Le nuvole si riunirono consuetamente verso le otto, ma il viso concentrato dell’anziano non parve farci caso, tanto che rimase immobile a modellare il suo ritaglio di legno. Alzò gli occhi dalla statuetta solamente quando la notte ebbe inghiottito fino all’ultimo raggio del sole, divenendo troppo buia per permettergli di concentrarsi nelle piccolezze delle labbra.

Il manico del coltellino ormai ardeva, ma la sensazione che si innescò nell’anziano signore fu differente: pareva scaldato da un tepore diverso, un calore che giungeva direttamente dal cuore.

 

I suoi occhi appannati ammirarono la creatura appena scolpita e si colmarono di ricordi, che cominciarono a scivolare giù per le sue gote intorpidite dal freddo della notte ormai giunta. Scrutava la figura appena formata con curiosità: sembrava quasi qualcosa la animasse. Era pressoché del tutto buio quando i suoi passi si allontanarono dal lago: la mano stringeva forte la sua statuina, mentre le labbra intonavano una melodia che, finalmente, traspariva pace.

Esiste un posto, nel lago, con i ricordi che tengono per mano le persone. A volte senti una voce cantare, accompagnata da un testardo fischiettio. Diresti che è colpa del vento, o forse penseresti alla follia. Se, però, aguzzi la vista, non ti occorre sedere sulla quercia per capire che, ogni tanto, sono i ricordi a farci respirare. Non ti stupire, quindi, se incontri un signore che fischietta ad una statua. Il suo ricordo la farà cantare.