L’anima di mio fratello

L’ANIMA DI MIO FRATELLO

Giulia Della Porta

IC “Divisione Julia” – Trieste

 

La mano delicata del sole aveva dipinto nel cielo sfumature rosa e rosse, come ad avvertire i mortali che stava quasi sorgendo.

Avevo appena attraversato la piccola piazza: l’antico palazzo, in cui avevo vissuto per tanti anni, si stagliava nuovamente davanti ai miei occhi, imponente come allora.

Mi ero alzata presto per tornare in quel posto, avevo attraversato i vicoli di Recanati con affanno, sentivo il peso della vita sulle spalle.

Il mazzo di chiavi tentennava tra le dita, incapace di resistere alla curiosità.

Aprii il portone che cigolò sotto il peso del tempo.

Le scale scricchiolavano sotto i miei passi.

Mi diressi in soffitta. Un odore acre di muffa e solitudine mi salì dalle narici alla gola, cogliendo di sorpresa i sensi e la memoria. Fu allora che mi chiesi se valesse la pena frugare nel passato, ma tanto ormai cosa avevo da perdere?

La stanza era sovraccarica di pensieri, l’aria irrespirabile, così oppressa dal fardello dei ricordi. Intorno a me solo silenzio, un silenzio quasi assordante.

Aprii la finestra che stridette con timore, quasi colpevole di interrompere un incanto. Un timido raggio di luce tagliò l’aria, riscaldandomi la pelle.

In un angolo del muro era appoggiato un vecchio baule di legno. Mi avvicinai lentamente. Le mie mani tremanti sollevarono il coperchio. Una nuvola di polvere invase la stanza.

La soffitta era grande e, benché fosse illuminata, quel misero riflesso non bastava a farmi intravedere gli oggetti in fondo al rifugio del nostro passato. Era tutto un gioco di ombre. Avevo paura, paura che il mostro dei ricordi mi saltasse addosso.

Una parte di me rifiutava di imboccare la curva amara del passato, ma arrivata a quel punto, non potevo fare altrimenti: dovevo sapere.

Mi parve di veder uscire dal baule l’anima di Giacomo, l’unica rimasta vera in quella casa.

I miei occhi sfiorarono una spada. Era in legno di cedro, ancora avvolta dal profumo dell’infanzia; aveva però la punta sbeccata, disperatamente inoffensiva.

Sull’impugnatura si leggeva una piccola incisione ormai sbiadita, quella “G”

“G” come “gancio” … un ghirigoro gentile, che mi attirava a sé, proprio come allora … Mi ritrovai a sorridere, di tutto e di nulla.

“G” come gioco, il gioco della nostra infanzia che non sembrava mai avere fine … e poi le corse in giardino, interrotte solo dalle grida della balia che ci riportavano bruscamente alla realtà.

“G” come “galassia”, quella che, stesi sull’erba col naso insù, ci immaginavamo sorridesse dietro al cielo. E tu all’improvviso prendevi a raccontare tante storie fantastiche sui miti e sugli astri … Carlo e io non eravamo mai sazi di ascoltarti.

“G” come … genitori … Oh, i nostri genitori: anime intrappolate nei loro rigidi colletti e nell’ assurda convinzione che si possa controllare tutto: emozioni, pensieri, paure. Ci avevano regalato una bella gabbia dorata, ma tu non potevi vivere senza amore. Mai una carezza, mai un abbraccio, mai un sorriso.

“G” come genio Ma quale genio? Tu eri, sei Giacomo, mio fratello.

“G” come “Giacomo”, un Giovane Geniale, senza dubbio. Eppure per noi non eri altro che un piccolo grande sognatore, amico della luna, l’eroe della nostra infanzia perduta.

Mi venne in mente il giorno in cui, puntando quella piccola spada verso il cielo, mi chiedesti: “è lì l’infinito?”. Io, in un primo momento, non seppi cosa risponderti, poi di slancio ti sussurrai che l’unica cosa davvero senza limiti era il mare dei tuoi pensieri. Rigirai quella spada tra le mani, sfiorando il filo di una lama finta, incapace di far male. Eppure il dolore si impossessava di me, con una fitta acuta e persistente. Mi sorpresi a piangere. Che io ricordi, non mi era mai successo prima. Il mio cuore si era forgiato a sopportare, senza incrinarsi mai.

Riposi la spada nel baule e lo chiusi piano. Scesi le scale in legno e mi ritrovai lì, davanti a quella porta con la maniglia di ottone, quella da cui Giacomo per sette anni non uscì, se non per mangiare e bere.

L’uscio era socchiuso, lo spalancai del tutto. L’immensa biblioteca si parò davanti ai miei occhi lucidi per l’emozione. Lo scaffale di Giacomo era più ordinato; allineati come soldati, mi salutavano i suoi compagni prediletti: Omero, i lirici greci, Cicerone, Ovidio e pure Rousseau. Tutti erano lì come allora, vigili, sull’attenti, pronti a offrire nutrimento e conforto. Di fronte alla grande finestra appannata era sistemata la scrivania in legno d’acero: quello era l’angolo in cui mio fratello studiava giorno e notte alla luce di una candela. Mi avvicinai. Sul tavolo notai un tagliacarte accanto a un fascio di fogli: lettere, bozze di poesie, appunti fitti, un po’ scoloriti. Un carteggio in particolare attirò la mia attenzione.

Lessi quelle parole, l’eredità più preziosa: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe …” Mi sembrava di udire la voce di Giacomo, così morbida, così profonda.

Mi fermai. Non ce la facevo a continuare. Afferrai il tagliacarte: mi sovvenne quando nostro padre Monaldo lo donò a Giacomo, che l’aveva reso fiero per le sue straordinarie qualità di erudito. Il tagliacarte … un oggetto tagliente come l’anima di chi ci aveva cresciuti, di chi forse non aveva ricevuto amore e, per questo, non l’aveva saputo offrire. Era appuntito, con un manico di ottone, finemente intarsiato. La lama era affilata, seppur graffiata dall’euforia dell’adolescenza e resa opaca dal tempo.

Eppure era ancora in grado di tagliare, scalfire. L’odio genera odio, il sangue genera sangue, il dolore genera dolore.

Mi ricordai del giorno in cui avevo bussato alla porta di quella stanza e, dalla soglia, vidi Giacomo ricurvo sulla scrivania: sembrava che portasse il peso del mondo sulle spalle, come l’infelice Atlante, condannato a sorreggere la volta celeste sulle spalle per l’eternità. Mi invitò a entrare. Quell’oggetto tagliente non gli apparteneva veramente. Gli occhi dolci di mio fratello ne accarezzavano la nobile lama, poi in fretta tornavano a cercare gli spazi immensi oltre il vetro della finestra di fronte. In quello sguardo languido e chiaro mi sembrò di vedere a un tempo il bene e il male, il coraggio e la paura.

Mi assalì uno strano turbamento.

Si era fatta sera e, oltre la finestra, una falce di luna pareva appesa al davanzale di quella stanza, di quel palazzo… Una lama di luce non può far male, non a Giacomo, non a noi sfortunati mortali pronti a mutilarci del nostro bene più prezioso: l’anima.

Rimisi in ordine i pensieri e scesi nella sala da pranzo. Mi accoccolai su una sedia e nascosi il viso tra le mani. Era rimasto tutto uguale da quando Monaldo e Adelaide erano morti. Cercai nella mia mente dove potesse trovarsi l’unica ragione per cui ero venuta, l’unica verità che volevo davvero conoscere.

Aprii un cassetto della credenza e li vidi: coltelli con lame di ogni genere, ordinati in fila, dal più tagliente al più innocuo.

Ne afferrai uno: il mio istinto scelse quello d’argento, il prediletto di nostro padre. Ancora una volta i ricordi si avventarono su di me, netti e spietati come chicchi di grandine.

Chino sull’elegante zuppiera, aggrappato alla lunga mensa, vedevo te, Giacomo, il maggiore di noi figli Leopardi, eppure il più indifeso.

Nostro padre, eretto, occupava il posto d’onore, a capotavola. Era un padre o un padrone? Lui, in fondo, ci amava come era capace, ti proteggeva a modo suo: ti tastava la fronte sudata mentre studiavi, lodava i tuoi capolavori, voleva trattenerti accanto a sé.

A tavola stavi alla sua sinistra.

A ogni pasto, era lui a prendere il tuo piatto e a risparmiarti, con una certa premura, quel lavoro che a te costava tanto sforzo: tagliava lui con il coltello ogni pietanza.

E a te piaceva, in fondo.

Quella lama argentata, quasi bianca, rispecchiava il tuo volto pallido, a tratti smarrito. Il manico prezioso rifletteva i tuoi occhi di bambino, la tua anima purissima.

In un attimo ripercorsi i momenti in cui Giacomo, per tutta la vita, si era rifiutato di usare oggetti taglienti. Ogni lama ha una doppia faccia: lei costruisce, ripara, guarisce, ma, all’occorrenza, incide, spezza, ferisce senza pietà. Da grandi non si gioca, tutto può far male. Finalmente mi era tutto chiaro: Giacomo preferiva non usare le lame perché possono tagliare la carne e il cuore, e lui non voleva un’anima ferita e poi bendata.

Finalmente avevo trovato la risposta alle mie domande.

Finalmente, con gli occhi socchiusi, avevo trovato la forza di salutare la nostra casa. Avevo riannodato il filo della rimembranza, capace di tenerci stretti come allora: nessuna lama sarebbe mai riuscita a spezzarlo.