“I” come italiano

“I” COME ITALIANO

Miriam Peressini

IC Cordenons

 

Un brivido mi salì lungo la schiena. Forse per il freddo, forse per la rabbia che invadeva il mio colpo da capo a piedi. Sentivo la mia mano a contatto con il ferro gelido e la ruggine. Ebbi la tentazione di afferrarlo ed estrarlo dalla tasca del vecchio giubbotto marrone ormai sgualcito con un gesto fulmineo, ma mi fermai: mi avrebbero arrestato e, cosa peggiore, mi avrebbero rispedito dritto in Italia, su una di quelle enormi navi che ci avevano trasportati fin qui, in America.

Era passato ormai quasi un anno, ma il ricordo di quel viaggio era ancora fisso nella mia mente. Ricordavo alla perfezione il freddo, l’umidità e l’odore nauseabondo che invadevano l’ambiente. Eravamo costretti a dormire sul pavimento gelido, stretti l’uno all’altro per riscaldarci. Cercavamo di nascondere l’agitazione, la nostalgia e la tristezza che ognuno di noi provava, ma non sapevamo fingere bene. La verità è che eravamo tutti impazienti di raggiungere la meta tanto ambita e desiderata, che vedevamo come una sorta di possibilità per ricominciare da capo un’altra vita.

La mia storia era simile a quella di molti altri ragazzi là dentro.

Provenivo da una famiglia numerosa, ed ero l’unico figlio maschio. Mio padre era morto circa due anni prima che partissimo, e da quel giorno la mia vita era totalmente cambiata. Avevo lasciato la scuola per iniziare a lavorare in una piccola bottega di un carpentiere vicino a casa, il quale mi pagava 200 lire a settimana: con il mio esiguo stipendio e quello della mamma non riuscivamo ad andare avanti. Avevo solo dodici anni. A volte, la sera, tornavo a casa e piangevo, sdraiato sul mio letto. Sentivo le lacrime scorrere sul viso e rigare le guance, giù, sempre più giù. E allora la mamma arrivava e mi chiedeva cosa fosse successo:

“Niente” le rispondevo. Sapevo che quella risposta sarebbe bastata e lei non avrebbe indagato più a fondo, perché aveva altre quattro figlie a cui badare. A volte ci speravo che si sedesse sul mio letto, mi accarezzasse il viso e mi chiedesse se stavo bene. No, non stavo bene. Questa era la verità. Mi sentivo diverso da tanti miei amici che potevano acquistare delle scarpe nuove per il compleanno e, una volta tornati a casa da scuola, correvano tra le braccia del proprio padre.

Finché un giorno la mamma ci annunciò la grande notizia: saremmo partiti per l’America.

Quella notte non dormii. Cercavo di immaginare come sarebbe stato, cosa ci aspettasse al di là di quell’enorme distesa d’acqua che sulle cartine di scuola sembra tanto piccola, ma nella realtà è enorme. Le valigie erano pronte: saremmo salpati il giorno successivo dal porto di Napoli all’alba. E mentre rimuginavo su quale sarebbe stata la nostra vita oltre l’oceano, mi venne un’idea. Mi alzai e, facendo attenzione a non svegliare nessuno, mi diressi verso l’armadio. Contai. Uno, due, tre. Si, era la terza asse da destra, ne ero certo. La sollevai lentamente e lo vidi. Sobbalzai, come se non me lo aspettassi, anche se in realtà sapevo che era lì. Il pugnale. Non un pugnale qualsiasi, ma quello che apparteneva a papà. Lo presi e lo infilai nella tasca del giubbotto. “Ora sono io che devo badare alla famiglia” pensai, anche se speravo che non mi sarebbe servito. E così il giorno dopo ci ritrovammo sulla grande nave, io, la mamma e le mie sorelle. Dopo un viaggio che sembrò interminabile, ma che poi scoprimmo durò solo tre settimane, stanchi, affamati e deboli, finalmente arrivammo. Per me era un’emozione grandissima. Prima d’ora non avevo mai viaggiato, se non a piedi in giro per il paese. E ora mi ritrovavo davanti palazzi altissimi, moderni, totalmente l’opposto delle baracche in cui vivevamo noi napoletani.

Ci fecero sbarcare in un isolotto chiamato Ellis Island, a quanto mi ricordo. Da lì si vedeva una grande statua raffigurante una donna che alzava una fiaccola al cielo, Eravamo arrivati al traguardo, stavamo per iniziare una nuova vita. Misi in tasca la mano. Si, era ancora lì, sentivo la sua punta tagliente sfiorarmi le dita.

Ci fecero entrare in un grande edificio, ci sottoposero a delle visite mediche, poi controllarono i nostri documenti. Con dei gessi bianchi tracciarono una “i” sui nostri vestiti; “i” come italiano o come immigrato? Ancora oggi non lo so. Ci fecero attendere in una stanza minuscola, stretti l’uno all’altro, per tutta la notte, le donne separate dagli uomini. La mattina seguente fummo chiamati uno ad uno per nome. Quando sentii il mio, il cuore mi batteva a mille; mi avvicinai all’uomo che lo aveva pronunciato, che mi disse: “Tu sei a posto, puoi passare”.

La vita era molto diversa da come mi aspettavo: vivevamo in un quartiere di italiani, ma quando la gente ci vedeva in giro ci chiamava “criminali” o “mafiosi”. Questa cosa mi metteva a disagio. Si, in Italia esisteva la mafia, ma la mia famiglia era sempre stata una famiglia perbene, altro che mafiosa. La mamma trovò subito lavoro, ma io dopo un po’ mi stufai di andare a scuola, perché di inglese non ci capivo un bel niente. Iniziai a saltare alcune lezioni, prima poche, poi tutte. Uscivo con un gruppo di ragazzi più grandi che erano a New York da alcuni mesi. All’inizio non facevamo niente di male, poi mi convinsero a rivendere delle sigarette illegalmente. “Solo così ci si può guadagnare da vivere” dicevano loro. Il tempo scorreva veloce in quella grande città, e intanto la mamma perse il lavoro nel cotonificio, Così il mio spaccio di sigarette aumentò, e man mano che il traffico illegale andava avanti, entrammo in conflitto con altri gruppi di ragazzi, anche più grandi. Una volta, durante una rissa, un ragazzo che doveva aver avuto intorno ai diciassette anni picchiò Luigi, uno dei ragazzi della mia banda. Quando Gigi tornò a casa aveva gli occhi gonfi e viola, il labbro sanguinante e una costola fratturata. Da quella volta iniziai a portarmi sempre dietro il pugnale, per precauzione, un po’ per sentirmi forte, un po’ per sentirmi al sicuro.

Ed eccomi qui. La mia mano sta toccando il ferro arrugginito del pugnale, quel pugnale che ha seguito il mio viaggio fin dall’inizio, quel pugnale che ha visto cambiare la mia vita. “Su, dai, colpiscilo, cosa aspetti?” mi urla Gigi mentre arriva correndo alle mie spalle. Davanti a me ho il capo della banda rivale, si fa chiamare “il grande lupo”. Chiudo gli occhi, stringo il pugno. Sento un piccolo taglio aprirsi nella mia mano e il sangue uscire. Mi volto e scappo via, piangendo.