Non uomini, solo soldati.

Ho freddo. Non sento nient’altro che il gelo dentro di me. Una leggera pioggia tamburella sui nostri caschi. Nessuno dorme. Nessuno ne ha il coraggio. È da settimane che il fronte è l’inferno stesso. Ho freddo. Tutti lo proviamo, ma nessuno si lamenta. Non ne abbiamo il diritto. Siamo vivi, dopotutto, o almeno pensiamo di esserlo. Non dormo da giorni. La notte i continui bombardamenti sono una gelida secchiata d’acqua che mi riporta all’orrore che mi circonda; di giorno si manifesta, si fa vivo. Mi entra in ogni poro della pelle, mi entra nelle vene, scorre in me. Stringo con forza il fucile su di me, il legno del manico mi dona forza, mi rincuora.

Non ho mai ucciso un uomo, solo soldati. La lama del fucile rispecchia il mio viso, è sbiadito. Udiamo un’esplosione in lontananza. Forse più a ovest, lungo il fronte, e poi le urla. Quelle maledette urla. Non possiamo scappare. Rimandare, certo, quello è possibile, ma mai scappare: è l’attesa la parte più tediosa. Stringo con maggiore forza il fucile, avvolgo le dita attorno al manico. Porto lo sguardo verso la lama e, per distrarmi dalle esplosioni e dalle urla, osservo con cura le incisioni segnate sulla sua superficie. Ognuna, simile ad una ruga di un viso anziano, narra una vicenda. Era una lama pregiata, quella, tramandata di padre in figlio per non so quante generazioni. Aveva viaggiato il mondo e ne aveva viste di guerre e conflitti. L’avevo sottratta a un cadavere, o perlomeno, a un futuro morto. E di colpo un pensiero mi fulmina, mi colma la mente e si rifiuta di andarsene, mi assilla. Quanti uomini avrà mai ucciso questa lama? Quanti figli avrà reso orfani? Quanti ragazzi proprio come me? Inizio a provare disgusto verso di essa. Rappresenta tutto ciò che detesto, tutto ciò che ripudio, il male assoluto del mondo. Io non ho mai ucciso uomini, solo soldati, lei no. Che onore c’è nell’usare una lama del genere? Uno strumento così barbaro, grande, ingombrante e doloroso.

Ho freddo, Non sento nient’altro che il gelo dentro di me. La leggera brezza autunnale porta dall’Oriente il pesante odore di zolfo e di metallo, il tanfo dei morti. Di carne bruciata. I rumori si fanno sempre più intensi. Non manca molto. Un generale passa di fronte a noi, avanti e indietro. Le sue parole a malapena si possono distinguere fra i rumori di bombardamento. Sento qualcosa che ha a che fare con la patria, con l’onore e con le nostre case. Mi manca la mia casa, a stento ricordo i volti dei miei genitori. Non li voglio scordare. Tutti udiamo le parole del generale, ma nessuno le ascolta. Sono sempre le stesse. Ci ordina di difendere la posizione, di non lasciarli passare, di combattere per la Patria….ah! …la Patria. Ma siamo stanchi. Forse qualche tempo fa avrebbero avuto effetto. Sono passati quattro anni. Siamo tutti stanchi. Li sentiamo, stanno arrivando. Guardo nuovamente la lama. Quante morti ha causato? Certamente più di me, penso. Non mi appartiene nemmeno, la dovrei spezzare, seppellire nel terreno, e dimenticarla. Eppure me la porto dietro. Sono io, tutti in fondo sono delle lame … e guardarla me lo ricorda.

Non ho mai ucciso uomini, solo soldati. Il settore a fianco al nostro viene attaccato. Chiudo gli occhi, provo a immaginare casa, ma non ci riesco. Immagini del passato mi riempiono i pensieri, si susseguono l’una l’altra senza fine. Immagini di atrocità passate, di guerre dichiarate e concluse, di morte. C’è mai stata pace in questo mondo? Pace ovunque senza guerra? Il generale ci ordina di prepararci. Mi sdraio a pancia in giù contro il suolo viscido di fango. Impugno il fucile contro la spalla, e mi preparo. Vorrei solo tornare a casa. Iniziano a sbucare dalla nebbia. Vorrei solo tornare a casa. Sparo un colpo, il soldato cade, e il suo posto viene preso da un altro. Non penso, premo nuovamente il grilletto. Il mio corpo non è più mio, non mi appartiene più. Non ho più il controllo delle mie mani. Ogni azione mi viene automatica. Vorrei solo tornare a casa. Sparo, ricarico, sparo, ricarico. Le mitragliatrici posizionate nella nostra trincea non si fermano. Li sterminiamo. Ondata contro ondata. Cadono tutti. Non uccido uomini, solo soldati, Ogni volta che ne abbatto uno, il suo posto viene preso da un altro. Vorrei solo tornare a casa.

Il generale passa dietro di noi. Ci ordina che non li dobbiamo lasciare avvicinare, ma le sue parole non hanno effetto. Poco dopo, viene trafitto da un proiettile in testa. Un sottoufficiale prende il suo posto. Gli ordini sono gli stessi. Sono bestie, animali, si buttano contro le nostre armi privi di qualsiasi istinto di sopravvivenza. Sono troppi. Finisco le munizioni. Passo alle bombe a mano. Ma terminano anche quelle. Loro no. Si stanno avvicinando. Emergono dalle nubi di polvere come animali. Brandisco con forza il fucile, e mi preparo a quando assalteranno la trincea. L’unica mia arma è la baionetta, quella lama che ho così tanto detestato, barbara e disumana. Mi rifugio nella trincea, protetto dagli argini di terra del fossato. Un uomo mi cade contro morto, il sangue gli ruscella da una ferita al volto. Le polveri innalzate dalle esplosioni mi avvolgono. Sono cieco. Figure attorno a me si muovono, cadono e muoiono. Rimango steso per terra, sul fango. Sul sangue. E osservo il mondo distruggersi. Nessuno mi spara. Sono un altro morto, lo sono sempre stato, non è mai esistita differenza tra me e il cadavere che mi copre e mi protegge. Il mondo si è dimenticato di me. Vorrei solo tornare a casa. Chiudo gli occhi e le immagini di un tempo passato mi colmano la mente. Immagini di un tempo atroce.

Il tempo passa veloce. Non ricordo quanto. Le esplosioni sono finite. Apro gli occhi di fronte al cielo grigio. I corvi e gli avvoltoi dispiegano e chiudono le ali al di sopra di me, gioendo per il macabro banchetto. A malapena respiro. Il peso del corpo mi schiaccia la cassa toracica: È un nemico. Il volto giovane, gentile, mi appare deturpato dai fiumi di sangue che lo ricoprono. La ferita è relativamente lieve, non comprendo come lo abbia potuto abbattere. Poi lo alzo e capisco. La mia baionetta lo ha infilzato in pieno nello stomaco, la lama nascosta interamente nella carne livida. L’ho ucciso. Il pensiero mi assilla. L’ho ucciso.

Lo sposto da sopra di me, e gli sottraggo gli abiti, la divisa del nemico. Spoglio di quegli umili e logorati abiti, il giovane mi appare un amico. Nella vita passata, ne ho visti decine di ragazzi come lui nei corridoi di scuola.

Indosso la sua divisa, prendo il fucile in mano, e mi accingo a risalire la trincea. Osservo il suo cadavere per qualche secondo. I corvi iniziano a posarsi su di lui, staccando ad ogni beccata un pezzo della livida faccia del ragazzo.

Sarei potuto essere io.

Il paesaggio attorno a me è tetro, devastato. Il terreno è solcato da buche e crateri. AI posto di fiori, piante, alberi è colmo di proiettili, armi, corpi, arti mutilati. Mi incammino per la terra di nessuno, barcollando qua e là. La brezza autunnale mi scompiglia i capelli, mentre osservo in lontananza il nulla, Lo ho ucciso. Lo ho ucciso. Lo ho ucciso. Non importa quanto io ripeta quelle parole, sperando che perdano significato. Mi colpisco il viso. Crollo per terra e sotterro il viso nel fango. Prego che sia tutto un incubo, dal quale prima o poi mi sveglierò. Ma non è così, e son costretto a rialzarmi.

Il mio corpo non mi appartiene più. Cammino per non so quanto, i miei unici compagni il fucile e la lama. Non provo stanchezza. Non provo fame, né sonno. Non provo più nulla. Alzo il fucile di fronte a me, e osservo nuovamente la lama. Stavolta il mio riflesso è lucido. Sono io, interamente io, nella mia più pura forma. Non provo nulla, come la lama. Non ho più emozioni o sentimenti. Ci sono riusciti, mi hanno trasformato in un’arma.

Il mio vagabondare mi porta in un piccolo paese distrutto e deserto. Mi appartiene. Il silenzio che lo domina mi attrae, e mi ritrovo ad esplorare le sue vie. Gli edifici sono in stato di completa rovina. Mi rifugio in uno di essi. Mi siedo contro una delle pareti, appoggio contro di essa il fucile. Chiudo gli occhi, e immagino casa mia. Per la prima volta mi sento a mio agio, in completa pace.

Ma un soldato non può mai veramente riposare. Sento un rumore. Mi sveglio. Impugno il fucile. Il mio corpo non mi appartiene, appare tutto così naturale, così automatico. Ho la vista annebbiata. Sparo in direzione del rumore l’ultimo colpo rimastomi in canna.

Sento un corpo cadere, leggero, sul legno del pavimento. La vista mi torna lentamente, e vedo chiaramente cosa ho causato. Lì, di fronte a me, il corpo di un bambino è accasciato a terra, sanguinante. Si tiene con le sue piccole manine la ferita sul petto. Non capisce cosa è successo. Non piange. Io sì. Esala i suoi ultimi respiri.

Sono una lama, sono un soldato, non sono più un uomo. Non so più cosa sono. Sono sempre stato una lama, privo di emozioni, impugnata con il solo obiettivo di uccidere. Eppure sento le lacrime rigarmi il viso, la disperazione che cresce dentro di me. L’angoscia che prende il sopravvento.

Tutto ciò che sento, tutto ciò che provo, significa che non ho mai perso la mia umanità.

Prendo il fucile in mano. Non ho più munizioni, ma fa lo stesso, non le avrei comunque utilizzate. Punto l’estremità della lama contro il mio petto. Non ho ucciso soldati, solamente uomini, e io sarò l’ultimo. Sorrido tra le lacrime. Mi ero sbagliato. Non sono riusciti a togliermi la mia umanità.

Io ero ancora un uomo.