Coltello Morse

Primo classificato Elisa Avoledo

Istituto Comprensivo “Margherita Hack” Maniago – 3^ D

Elisa Avoledo(prima)_bassa

 COLTELLO MORSE

Nemmeno il dolce rumore della pioggia che cade riesce a calmare i miei pensieri. Non questa notte. Il cuscino, impregnato di lacrime, risulta scomodo sotto il mio viso. Nonostante senta gli occhi pesanti, imploranti di potersi concedere del riposo, mantengo lo sguardo fisso sulle tende appese alla finestra. La mia mente è colma di dubbi, disperazioni, distrazioni, sensi di colpa, rimorsi. Le luci della città si alternano a quelle delle stelle. Prima di stendermi, mi ero ben assicurata che la porta fosse chiusa a chiave. Poi avevo iniziato a piangere. Sento il mio corpo più leggero e fragile che mai. I singhiozzi e il pianto soffocato sono come un peso sul petto, qualcosa di talmente pesante da sfracellarti le costole. Ma è un peso che devo sopportare. Non voglio far rumore. Tra un po’ sarà tutto più semplice. Dal terzo piano del condominio in cui vivo, distinguo perfettamente il fragore delle risate di qualche gruppo di ragazzi andati a cena fuori, il ronzio delle automobili e degli autobus, riesco quasi a percepire una ninna-nanna sussurrata dolcemente da una madre alla piccola figlia in uno dei tanti palazzi che circondano il mio. Ma non importa quanti suoni percepisco. Sono circondata dal silenzio. Mi sembra di seguire con l’udito il ticchettio frustrante di un orologio. Secondo dopo secondo mi sento peggio, sempre più debole. Mi porto le ginocchia al petto e mi rannicchio sotto le coperte. Non fa freddo, ma ho i brividi. Mi strofino le braccia tentando di mandar via la pelle d’oca, senza molti risultati. Distolgo lo sguardo dalla finestra e mi concentro sul primo cassetto della scrivania. Sono tentata di alzarmi ed aprirlo, noncurante delle conseguenze, ma non ci riesco. Sospiro, interrompendo il lungo tacere che mi aveva tenuto compagnia nelle ultime ore. Sempre sorridente, disponibile ad aiutare le persone. È così che appaio alla gente. Ma scavando più a fondo, non limitandosi all’apparenza, sono completamente diversa. A volte non mi riconosco nemmeno io. Non so più chi sono. Altre lacrime che premono di uscire. Cosa mi sta succedendo? Mi faccio forza e mi alzo in piedi. Mi reggo a malapena sulle ginocchia. Tutta colpa di quel maledetto coltello. Le tempie mi pulsano, un battito irrefrenabile. Mi dirigo lentamente verso la scrivania. In quel cassetto si trova la ragione di tutta la sofferenza che mi circonda.
Quando mio nonno è venuto a mancare, diversi mesi fa, mia madre era venuta in camera mia con le lacrime agli occhi. Mi aveva detto che suo padre aveva creato il suo ultimo manufatto apposta per me. Una lama dai riflessi argentei, il manico di un particolare legno ben levigato. Mi aveva anche riferito che era importante per lui che quel coltello diventasse mio. Sapeva che la sua ditta non sarebbe riuscita a mantenere i bilanci dopo la sua morte. Ma, come diceva sempre lui, ogni cosa è destinata a finire. Quando mia madre aveva chiuso la porta alle sue spalle, avevo preso in mano l’utensile e sentito come una scossa. L’avevo gettato a terra di colpo, ignara di cosa era accaduto. Lo avevo ripreso qualche minuto dopo, sforzandomi di non lanciarlo di nuovo. La lama emetteva un ronzio simile ad un’ape. Era doloroso e insistente, senza tregua. Qualche giorno dopo l’avevo portato a scuola, e avevo chiesto ad alcune persone di tenere il coltello tra le dita e dirmi cosa sentivano. Quando mi chiedevano come mai volevo una simile informazione, rispondevo loro descrivendo cosa provavo toccandolo. Loro ridevano. Sei matta, dicevano. Questo coso non trasmette un bel niente, altro che scossa, continuavano. In poco tempo, si sparsero voci nella scuola riguardo l’accaduto. Mi davano della pazza, esagerando sui fatti, inventandosi cose che non avevo mai detto o fatto. I pettegolezzi diventarono fin troppi. Ragazzi e ragazze che non conoscevano tiravano fuori dalle tasche le monete per comprarsi il pranzo e se le scambiavano fra loro ripetendo “senti la potenza del metallo? Senti la scossa, la vibrazione?” per poi scoppiare a ridere, indicandomi. Non riuscivo a credere che una cosa apparentemente banale potesse tormentarmi così tanto. Ma per me non era una cosa scontata. Ogni tanto riprendevo tra le mani quello strano oggetto. Man mano il ronzio si faceva più lento e meno duraturo. Poi l’avevo chiuso in un cassetto. Nelle ultime settimane, sono stata sempre peggio. Finché non ho iniziato a prendere in seria considerazione l’ipotesi di scomparire. Non semplicemente di andarmene, i ricordi sarebbero strazianti. Dovevo sparire totalmente, smettere di vivere.
“Accontentiamoli” mi ripeto mentalmente avvicinandomi al cassetto “è questo che vogliono. É questo che voglio”. Il coltello era lì, lucente come quando mi era stato dato. Se devo farla finita, sarà con quest’arma. È tra i miei palmi. Questa volta però è diverso. Il rumore si è ridotto ad un ticchettio, la scossa scomparsa. Qualcosa torna alla mia mente. Ero distesa in giardino, il nonno strappava alcune erbacce. Ad un certo punto si era seduto accanto a me, e aveva iniziato a picchettarmi il braccio con l’indice.
“Durante la guerra, per comunicare importanti informazioni senza farci sentire dai nemici, usavamo il codice Morse” mi aveva spiegato come funzionava, e col tempo avevo imparato ad usarlo anch’io.
Mi concentro sul suono che sto sentendo. Perché non ci ho pensato prima? Il coltello deve contenere un macchinario che batte contro la lama.
“Non arrenderti”, dice la sequenza in codice Morse.
Il ticchettio smette, portando via con se le preoccupazione, il malessere, la tristezza. Stringo il coltello al petto, senza alcun intento di ferirmi. Sorrido, per la prima volta dopo mesi. “Non mi arrenderò. Non così facilmente. Non più.” sussurro, come se il nonno fosse qui accanto a me.

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