La baionetta

Marco Roncador (terzo)_cr

Terzo classificato Marco Roncador

Liceo Classico Prati – Trento 4^ B

LA BAIONETTA

Entro silenziosamente nella mia stanza da letto, piccola e con pochi mobili ad arredarla. Cammino piano, come se avessi paura di svegliare qualcuno, e mi avvicino a quel mobiletto che non lascio aprire a nessuno, nemmeno a mia moglie.
Con una chiave nascosta lo apro e ne tiro fuori un oggetto stretto, lungo trenta centimetri, avvolto in un panno bianco. Le mie mani tremano mentre, lentamente, svolgono il panno: mi trovo davanti una lunga baionetta, con il manico di legno terminante con un anello, per collegarla al fucile. La lama è lunga e argentea, affilata come appena uscita dalla forgia; sembra che il tempo non l’abbia minimamente intaccata. Avverto un familiare tuffo al cuore.
Comincio a lucidarla e, con una pietra, ne affilo i bordi.
Guardando quell’oggetto, provo sempre un senso di tristezza e di ribrezzo, ma non sono mai riuscito a sbarazzarmene: sarebbe come voler dimenticare ciò che ho fatto con essa, e dimenticare sarebbe impossibile e ingiusto.
Una lacrima amara mi riga il volto.
Le mie mani svolgono meccanicamente quel lavoro, che compiono ogni domenica da quando è finita la guerra, vent’anni fa.
Come sempre, finisco per scivolare nei ricordi…

Era un gennaio particolarmente freddo, quello del 1916, e quella notte, in quota, si gelava.
Avanzai a fatica nella neve che riempiva la trincea, con le gambe rigide per il freddo e la fatica quotidiana. Giunto alla postazione di guardia, mi scavai un giaciglio per sedere, poi mi misi a fissare avanti, come sempre, stringendo la canna del fucile.
Il mio alito affannato creava bianche nuvolette, che si andavano a confondere nella sottile nebbia che permeava quell’atmosfera di attesa, a cui nei mesi mi ero abituato. Alla fioca luce della luna, le cime innevate dei monti rilucevano.
Volsi un’occhiata nostalgica alla valletta che si intravedeva alla mia sinistra, incoronata dai rilievi: mi ricordava tantissimo la mia.
Ripensai a tutto quello che la guerra mi aveva portato via: gli amici, le feste di paese, il sorriso dei miei cari e, probabilmente, anche il mio futuro.
La nostalgia mi strinse il cuore come una morsa. Distolsi lo sguardo.
La trincea austriaca era cento metri più avanti, avvolta nella nebbia e nel silenzio, ma sapevo che qualcuno, lì, mi sorvegliava, come io sorvegliavo lui.
Passarono le ore, e la mia mente cominciò a vagare, mentre il sonno calava lentamente il suo velo su di me.
Quando scoppiò la Grande Guerra, avevo ventuno anni e abitavo in un piccolo maso di campagna, poco lontano da Trento, con i miei genitori, le mie sorelle e mio fratello minore. Fui inviato insieme a lui a combattere in Russia. Quasi tutti i nostri compagni d’arme erano austriaci.
La guerra era terribile e, per di più, il nostro comandante cominciò ad essere sospettoso nei nostri confronti perché parlavamo italiano e si temeva che l’Italia potesse entrare in guerra contro l’Impero. Dunque cominciò ad assegnarci i compiti più pericolosi e i turni di guardia più sfiancanti: ero distrutto.
Senza nemmeno parlarne con mio fratello, che, da uomo ligio al dovere com’era, non avrebbe certamente approvato, nel ’15 fuggii e mi arruolai nell’esercito italiano, che combatteva sulle Alpi, sperando in una situazione migliore.
Effettivamente, nei primi giorni mi trovavo meglio nel nuovo esercito, ma, presto, mi resi conto che la guerra era pur sempre la guerra.

Il filo dei miei pensieri fu interrotto da un rumore improvviso che si avvicinava sempre più: passi nella neve.
Dalla nebbia emerse la sagoma di un uomo che, impacciato e disarmato, avanzava nella terra di nessuno, diretto alla trincea italiana. La luna illuminava la sua divisa blu: era un austriaco.
Mi misi in allerta e, istintivamente, caricai il fucile, puntandolo contro l’ignaro soldato.
L’usuale freddezza scese su di me, e mi dimenticai che quello davanti a me era un essere umano. Accostai l’indice al grilletto.
Mi fermai all’improvviso, ragionando: se avessi sparato, gli austriaci avrebbero risposto al fuoco e la battaglia sarebbe infuriata.
Dunque uscii dalla trincea e, stando basso sul manto nevoso, mi avvicinai silenziosamente al nemico, controllando che la baionetta fosse al suo posto.
Quando fui abbastanza vicino, mi fermai, lasciando che l’uomo compisse i suoi ultimi passi; ora potevo vederlo chiaramente, ma il suo volto era coperto da una lunga sciarpa.
Balzai in piedi e infilzai la baionetta nel suo ventre, come avevo fatto altre mille volte. Il soldato emise un rantolo soffocato, poi cadde all’indietro, strappandomi di mano il fucile. Sotto il suo cadavere la neve si colorò di un rosso molto scuro, quasi nero nel buio.
Mi chinai su di esso ed estrassi la lama, impassibile, quasi soddisfatto del mio lavoro, e feci per ritornare alla postazione.
Ma mi fermai di colpo, con lo sguardo inchiodato sul corpo dell’uomo: c’era qualcosa di strano.
Con la punta della baionetta, scostai la sciarpa incrostata di ghiaccio dal volto del soldato: aveva occhi scuri e lineamenti dolci, sopracciglia folte e capelli lunghi che coprivano quasi completamente la fronte. Era un viso che conoscevo benissimo. Caddi in ginocchio, incredulo, e iniziai a tremare convulsamente: non potevo credere a quello che avevo fatto.
Avevo ucciso mio fratello.
La mia gola era serrata, quasi non riuscivo a respirare. Non riuscivo nemmeno a piangere, solo a guardare il corpo, in silenzio.
Il fucile mi sfuggì dalle mani, cadendo nella neve.
Restai lì, incapace di muovermi, per un periodo che mi parve eterno.
Il silenzio nell’aria era palpabile.
Alla fine mi alzai e mi caricai il corpo sulle spalle; camminai per un lungo tratto, fino a che non fui abbastanza lontano dalle trincee. Allora, a mani nude, scavai in profondità nella neve fresca e vi deposi il cadavere, per poi ricoprirlo: non potevo privare mio fratello persino di quel piccolo onore.
Con le mani congelate e il cuore a pezzi, mi diressi verso la mia postazione.
Passai tutta la notte pensando a tutte le persone che avevo ucciso, a come i miei occhi non ‘ le degnassero di uno sguardo, alla mia freddezza quando privavo un padre del figlio, un uomo del fratello. Solo allora mi rendevo conto di quanto poco rispettavo la vita umana, e di quanto la guerra fosse una carneficina senza giustificazioni.
La baionetta si era sporcata del sangue di mio fratello, ma, in qualche modo, aveva ucciso anche me.

Sospiro e mi asciugo il volto con il dorso della mano. Finito di lucidarla, riavvolgo la lama e la depongo nell’armadietto, chiudendolo a chiave. Ancora una volta ho messo al sicuro il mio segreto: non lo ho mai raccontato a nessuno, nemmeno ai miei genitori.
A volte la tentazione di raccontare, di condividere con qualcuno questo fardello è fortissima. So che mio padre e mia madre mi perdonerebbero, ma non voglio dare loro un dolore così grande, non voglio che la baionetta ferisca anche loro.

 

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