Primo classificato Matteo Valan IC Maniago Secondaria G. Marconi – 3A

Primo classificato

Matteo Valan

IC Maniago Secondaria G. Marconi – 3A

Excalibur: le avventure fantastiche di un coltello (punti 28/30)

La storia di un coltello, raccontata in prima persona dall’oggetto, permette di attraversare esistenze diverse, epoche lontane  in modo intelligente e con grande sensibilità ai diversi contesti storici, ai diversi personaggi che via via lo possiedono. Dal momento della costruzione alla finale destinazione in un museo, il coltello Excalibur ci conduce con freschezza narrativa nei vari passaggi cruciali della sua esistenza, con una sensibilità psicologica non comune, un’attenzione ai luoghi e una tenuta stilistica precisa e omogenea. Il racconto pertanto è valutato meritevole del primo premio.

EXCALIBUR: LE AVVENTURE FANTASTICHE DI UN COLTELLO

di Matteo Valan

 Altra giornata noiosa. Anche oggi vedo passare tanta gente che mi guarda distrattamente da lontano e va avanti. Per la verità qualcuno si ferma e, non visto da Marina, magari avvicina la mano e mi sfiora. Mi piacciono soprattutto i bambini quando mi accarezzano con le loro mani piccole e delicate, alle volte anche un po’ sudate e appiccicose e mi guardano con uno sguardo sorpreso. Sanno che non possono farlo ma la tentazione è troppo forte. I genitori li rimproverano raramente, al contrario molto spesso li incoraggiano.
Mi hanno messo sopra un vecchio banco da lavoro di legno, tra lime arrugginite. Se mi cercate sono proprio tra la morsa a stelo e il mantice e, davanti  a me, c’è uno sgabello un po’ strano perché ha solo tre gambe. Attraverso le finestre riesco a vedere anche gli alberi fuori che quando soffia il vento forte si piegano e alle volte si spezzano.
Marina è la guida del museo, il museo dell’Arte Fabbrile e delle Coltellerie di Maniago. Quasi ogni giorno mi viene a trovare  per spiegare ai visitatori come sono stato fabbricato e quanti anni ho. Lo fa in italiano, in inglese e alle volte anche in tedesco ma nessuno conosce, in realtà, la mia vera storia. Il tempo non mi manca, forse la memoria mi farà fare qualche errore, ma vorrei raccontarvela.
Innanzitutto non sono stato “fabbricato” ma sono stato creato da un maestro artigiano nel 1927 in una bottega di Maniago. Dico che non sono stato fabbricato perché il mio maestro, Giovanni Del Tin detto Filiscjin, mi parlava sempre come se fossi suo figlio. Mi parlava quando ero solo un pezzo di metallo sul suo scaffale, mi parlava mentre, con passione, mi batteva sotto il maglio rassicurandomi sul fatto che sarei diventato un bel coltello e avrei fatto felice il mio proprietario, mi parlava mentre mi temprava e quando montava le piastrine delle guancette in madreperla accuratamente scelte tra mille, e mi parlava anche quando, infine, mi mise in bella esposizione sul banco della sua bottega per essere venduto. Posso dire che per me è stato come un padre.
Ogni volta che entrava qualcuno io e i miei fratelli facevamo a gara per prendere un raggio di sole e far risplendere la lama. Per la verità io non avevo fretta di lasciare la bottega  dove ero trattato con cura e amore. Avevo visto passare tanta gente, dai contadini ai nobili, dai soldati ai mercanti, ma avevo dovuto attendere qualche settimana prima di trovare il nuovo padrone. Ogni sera il maestro mi riponeva nella scatola  e mi diceva “non preoccuparti,sei un bel coltello e domani sono sicuro che qualcuno ti comprerà”.
Quel giorno arrivò. Ricordo bene che era una giornata piovosa e pertanto non posso nemmeno dire che sono stato scelto, quella volta, perché ero riuscito a prendere, prima degli altri, un raggio di sole. Sono stato scelto forse per caso ma voglio pensare di essere stato scelto semplicemente perché ero il più bello tra i miei fratelli.
Quel giorno era entrato in bottega un uomo grande e grosso con il figlio, un ragazzino forse di sei o sette anni che si nascondeva per la timidezza dietro i pantaloni bucati del padre.  L’uomo, un mezzadro di Maniago, voleva regalare un coltello da tasca al figlio per il suo compleanno perché  era sicuro che con un coltello in tasca avrebbe superato la sua timidezza e sarebbe diventato un uomo. E così fu. Il mio maestro Giovanni mi prese con delicatezza e, prima di avvolgermi nella carta di giornale, mi sussurrò solo queste parole “buona fortuna e fatti valere! Tu hai delle capacità ineguagliabili!”. Il suo volto era malinconico e gli occhi lucidi ma quella volta per lui vendere un coltello significava garantire un pasto per la sua famiglia. Solo per questo io ero fiero perché dopo tante cure che avevo ricevuto finalmente, in qualche modo,avevo potuto ricambiare.
Io e Pietro, questo era il nome del bambino, da lì a poco saremo diventati amici inseparabili.
Adesso posso presentarmi: sono Excalibur. Nella mia vita sono stato chiamato in tanti modi “curtis”, “coltello” “knife”, “messer”ma il mio vero nome è Excalibur, perché questo è il nome che mi ha dato Pietro e che mi porto dietro. Ho saputo da Marina che mi chiamano anche “filuscina” o “filiscjina”, ma non so bene qual è il nome giusto perché alle volte mi chiama in un modo, altre in un altro, dipende dalla giornata. Sono un piccolo coltello a serramanico da tasca, un temperino con una lama grande e una un po’ più piccola. Ho anche una terza lama che ha una forma un po’ strana ma non ho mai capito a cosa serve veramente.
Come dicevo io e Pietro eravamo amici inseparabili. Ogni volta che usciva mi infilava nella tasca dei suoi pantaloni e ogni volta che si incontrava con i suoi amici, pochi per la verità, almeno all’inizio, mi mostrava come se fossi stato una banconota da 100 lire. Con il passare del tempo Pietro si era fatto tanti amici anche grazie a me ed era diventato un ragazzo ben voluto e rispettato da tutti. La sua timidezza era scomparsa ma era sempre rimasto un ragazzo gentile e ben educato.
Con Pietro abbiamo passato mille avventure: un giorno ero la lancia di un soldato romano che combatteva contro i greci e allora mi legava con uno spago ad un bastone , un altro giorno ero Excalibur, la spada di Re Artù e combattevamo contro i Sassoni invasori della Britannia. I Sassoni o i Greci erano sempre gli alberi del boschetto che confinava con il terreno di suo padre.
Gli anni passavano, Pietro diventava sempre più grande e responsabile, io ero rimasto uguale, ma a vista d’occhio si vedeva che non ero più quello dei tempi migliori: non mi sentivo più tanto elastico e tanto forte come una volta. Anche il filo delle mie lame cominciava a dare segni di stanchezza.
Pietro, ormai diventato quasi un uomo, non mi utilizza più per giocare, bensì per scopi più utili: con me faceva diventare appuntita la punta di alcune ramaglie per poi usarle con l’arco e andare a caccia di qualche lepre selvatica. Facevamo felice molta gente in quei tempi di fame e di questo ero orgoglioso.
Mi portava a spasso con lui, andavamo in giro per le Colvere o per il monte San Lorenzo ogni giorno, e  abbiamo vissuto dei bellissimi momenti, spesso anche strani e avventurosi.
Mi ricordo, per esempio,quella volta che ci siamo persi in mezzo al bosco, proprio quando gli ultimi raggi di sole facevano da sfondo ad un favoloso cielo rosato e le buie nuvole della notte stavano coprendo pian piano il cielo. Pietro  mi aveva stretto forte come se cercasse qualcuno che gli facesse coraggio e gli tenesse compagnia fino al ritorno a casa. Oppure posso raccontarvi di tutte le escursioni in montagna che abbiamo fatto: ho visto il monte San Lorenzo, la Pala d’Altei, il Raut, il Campanile di Val Montanaia, il Jouf, il monte Cavallo, dove ho accompagnato la mia “famiglia” a camminare sulla neve, il monte Fara e, ah già … le Valine dove però mi sono perso. È bastato un attimo, una distrazione e mi sono  ritrovato nella soffice neve. Mi ritrovò un uomo anziano quando le giornate erano ormai diventate più calde, la neve quasi scomparsa e i prati avevano ripreso il loro colore verde ed erano pieni di primule. Ricordo  la sua voce  rauca, severa e forte. Io mi trovavo tra le radici di un vecchio castagno ed ero ormai quasi completamente arrugginito. Gli ero subito piaciuto, anche se ero un po’ malandato perché – disse – avevo  un aspetto simpatico e una forma strana e mi avrebbe tenuto lui. Mi riportò a Maniago dove viveva e mi fece lucidare. Si chiamava Giuseppe, detto “Chiucja” perché aveva la testa sproporzionata rispetto al corpo. Faceva il falegname. La puzza di fumo che sentivo fin dal primo giorno era dovuta alla grossa pipa di legno scuro che fumava ogni sera, dopo cena. Mi usava solo per pulirgli la pipa, oppure per aprire qualche bottiglia di vino, tutto il resto del giorno lo passavo su un mobiletto davanti alla poltrona. A forza di fumare gli si erano ingialliti i denti. Una sera accadde un brutto episodio: Giuseppe si era ubriacato e mentre rientrava barcollando dal Leon d’Oro aveva cominciato a minacciare i passanti cercando di aprire una delle mie lame con quelle sue mani grandi, forti e tremolanti per il troppo vino. In quella occasione, però, mi ero bloccato resistendo a tutti i tentativi di Giuseppe di aprirmi. Credendomi rotto la sera stessa mi portò in cantina dove sono rimasto una trentina d’anni, un inferno passato in mezzo a mucchi di cose inutili: un posto umido, buio e stretto, dove il silenzio veniva interrotto di tanto in tanto solo dal rumore di qualche topo che sgattaiolava per rosicchiare le pagine dei vecchi giornali.
Un giorno però, all’improvviso, si illuminò tutta la stanza, l’aria passò di nuovo tra le mie guancette ormai scollate per l’umidità e mi accorsi che la mia vecchia lama non risplendeva più, anzi, era diventata completamente ruggine. Pensavo, anzi speravo, che con un po’ di olio e un colpo di mola sarei diventato come nuovo e, forse, sarei stato nuovamente utile a qualcuno. Mi sbagliavo. I nipoti di Giuseppe, che nel frattempo era passato a miglior vita, mi caricano su un camion assieme a tutte le altre cianfrusaglie della cantina: carte, mobili rotti, vestiti, vecchi tubi di stufa e molto altro prendendo poi la strada che porta alla discarica.
Come? Un coltello bello e forte come me che finisce in discarica? Ho molto ancora da fare gridavo, ma ovviamente nessuno mi poteva sentire.  La fine ormai era vicina, sarei finito di certo nel forno di qualche fonderia per diventare chissà cosa. Appena arrivato in discarica, però, per fortuna mi raccolse un uomo gentile, non conosco nemmeno il suo nome. Mi portò a casa sua e, con cura e con pazienza, mi sistemò sostituendo le parti che ormai si erano irrimediabilmente danneggiate, mi lucidò e mi mise anche un po’ di olio. Ero quasi come nuovo. Quell’uomo mi aveva fatto ricordare Giovanni, il mio papà: chissà forse era un suo nipote.
Qualche giorno dopo mi sono ritrovato in questo museo. Certo, forse non sarò più utile come coltello, non taglierò più rami e non farò più la punta alle frecce, non aiuterò nei campi e non pulirà più gli zoccoli dei cavalli ma non mi sento inutile: servo per ricordare mio padre Giovanni e la storia e le tradizioni del mio paese. E questo mi basta.
Adesso è sera, tutte le luci della sala si stanno spegnendo, chissà quanta gente incontrerò domani. Forse verrà anche Pietro.
Buonanotte.

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