Una lama che ci unisce

UNA LAMA CHE CI UNISCE

Isabel Benda

Liceo “E.Torricelli”, Maniago

 

Sono in treno, diretta a Maniago, è il 12 luglio. Guardo fuori dal finestrino, non si procede molto veloci, il sole è alto ma il cielo non è completamente limpido. Il vagone è quasi vuoto, di fronte a me è seduta una anziana signora intenta a sfogliare un vecchio libro dalla copertina scolorita, legge rapidamente come se conoscesse già tutte le parole e ogni tanto sposta Io sguardo sull’orologio che ha al polso. Qualche minuto dopo il treno frena dolcemente fino a fermarsi, mi alzo e afferro la valigia. Una volta scesa vengo invasa da un caldo afoso, faccio un lungo sospiro e attraverso le rotaie. Osservo la cartina e cerco di orientarmi, dopo qualche tentativo fallito mi arrendo. Entro nel piccolo bar della stazione, una donna da un ampio sorriso mi accoglie da dietro il bancone, ci sono tre uomini seduti ad un tavolino che mi osservano per un attimo e poi riprendono a parlare ad alta voce. Chiedo le indicazioni per la piazza ed esco cercando di memorizzarle.

Mi dirigo verso l’albergo Leon D’Oro, entro nell’elegante edificio rosa, all’interno un grazioso bar un po’ datato, vengo accompagnata alla mia camera e inizio a disfare la valigia. Prendo il quadernetto per gli appunti e cerco l’indirizzo del primo imprenditore che devo incontrare.

Con qualche difficoltà raggiungo la moderna fabbrica. Vengo accolta da Alberto, un uomo dalla raffinata intelligenza, con le mani callose e rovinate da un lavoro che ormai aveva abbandonato.

Insieme percorriamo le varie tappe per la produzione dei coltelli, dalla scelta dei materiali all’accurato controllo del prodotto finito. Passo diverse ore ad ascoltare la sua voce roca che mi racconta della sua vita da bambino quando assieme al padre lavorava a mano ogni singola lama, con un pizzico di nostalgia si immerge in ricordi passati e sorride quando gli tornano alla memoria pezzi di vita che pensava di aver dimenticato.

Al calar del sole mi incammino verso l’albergo e inizio a lavorare sull’articolo di giornale che mi è stato affidato: l’arte del coltello.

Con il passare dei giorni inizio ad abituarmi al caldo fastidioso che si appiccica sulla pelle come
un guanto. Intervisto vari imprenditori e lavoratori, ognuno con una propria storia da raccontare.

Giulio con la barba folta e gli occhi stanchi parlava con il cuore e riviveva ogni secondo della sua giovinezza come fosse appena accaduto.

Marco che con lo sguardo furbo scherzava e rideva mentre raccontava delle notti passate in officina di nascosto per poter costruire una forbice da regalare alla ragazza di cui si era follemente e innamorato e che ora, 30 anni dopo, era sua moglie e madre dei suoi figli.

Antonio, la cui casa è un museo, nonostante la vecchiaia continua a creare delle vere opere e non tralascia neanche un secondo dei quarant’anni passati a lavorare con passione e amore.

Mentre sono seduta ad un bar che si affaccia alla piazza, stanno allestendo per la festa del coltello che si terrà in questi giorni. Seduti al tavolino a fianco al mio alcuni ragazzi stanno organizzando i piani per il fine settimana. Tutti dai più giovani ai più anziani legati da tradizione, storia, gioia e orgoglio. Finisco di bere il caffè e mi dirigo da Tommaso, l’ultimo sulla lista.

Arrivo di fronte ad un vecchio edificio, mi incuriosisce perché non è moderno come gli altri che ho visitato. Spingo la pesante porta, appena varco la soglia vengo investita dal rumore degli antichi macchinari posti ordinatamente all’interno della grande stanza e dal forte e nauseante odore di grasso e olio.

Non vedo nessuno così mi avvicino ai vari attrezzi per osservarli meglio, sono colpita dal loro fascino. Meravigliata mi perdo tra i miei pensieri. Mentre vago per l’edifico sovrappensiero scorgo un giovane uomo di schiena intento a lavorare una lama.

Mi avvicino in punta di piedi come se avessi paura di disturbarlo, all’improvviso si volta e la sua espressione è un insieme di curiosità, stupore e paura.

Si alza rapidamente dal piccolo sgabello in legno, mentre mi viene incontro si asciuga le mani sudate sui pantaloncini sporchi e infine mi porge la mano per presentarsi. Infilo nella borsa la penna che stavo rigirando tra le mani per il nervosismo, e ricambio il saluto. Le sue mani callose e ruvide mostrano le conseguenze del suo lavoro. Ci sediamo e inizio a fare qualche domanda che mi ero segnata sul quaderno, prendo appunti per evitare il suo sguardo che mi mette stranamente a disagio. Tommaso risponde in modo scrupoloso ma freddo ai miei quesiti, nessuna emozione. In poco tempo finisco le mie domande e mi ritrovo senza parole, rimaniamo in silenzio per qualche minuto dopodiché la quiete viene interrotta. Inizia a parlare a voce bassa. Mi racconta quando da bambino saliva sulle spalle del padre e insieme andavano nell’officina, ogni volta che varcava quella soglia si sentiva grande e osservava quei grezzi pezzi di ferro che pian piano prendevano vita grazie alle mani abili del nonno. Quel nonno che grazie all’amore, alla sapienza e all’esperienza gli trasmetteva la passione per quel lavoro che da generazioni era passato tra le mani e i cuori.

Mi spiega la sua decisione di conservare tutto com’era un tempo per non dimenticare le proprie origini e per preservare il valore di ogni singola lama lavorata a mano con dedizione e passione.

Rimango profondamente colpita dalle sue parole come da quelle degli altri coltellinai. Tante storie che si intrecciano tra di loro, un coltello che le unisce per sempre.