Il fabbro che fondeva la luce

Al giovane fabbro era stata commissionata da un ricco mercante un’arma ben precisa. Il mercante si era presentato alla fucina con un disegno particolareggiato, su una carta spessa e pregiata, dicendo di aver sognato quell’arma, sentendone quasi la vocazione.

Il giovane aveva preso in mano il foglio, lo aveva scrutato a lungo, osservando i ricami sul manico e la lama affilata e potente.

– A cosa le serve questo pugnale? domandò curioso il fabbro, tenendo stretto tra le mani il foglio di pergamena e percorrendo lentamente con la punta del dito le raffinate linee di contorno.

– A cosa mi servirà? Forse a niente, ma se Dio me l’ha mostrato, sento che c’è un motivo. Sento il suo richiamo, forse mi prenderai per pazzo, ma so che devo averlo tra le mani. Forse, questo sarà il mio portafortuna – rispose serio il mercante.

– Oppure la sua rovina – sussurrò il giovane, stando attento a non farsi udire. Voleva quel lavoro, perché sapeva che il mercante avrebbe pagato bene, molto bene. Posò il disegno sul tavolo, sentì gli occhi chiari del mercante su di sé.

– Ti offro trenta monete d’oro, se mi assicuri che il lavoro sarà eseguito esattamente come lo desidero. Deve essere impeccabile, invidiabile anche dal re del più grande impero.

Il fabbro sussultò al sentire quella cifra, poiché trenta monete d’oro non le aveva mai viste nella sua intera vita; era più di tutto ciò che la sua famiglia aveva guadagnato in generazioni di lavoro. Fu così colto da un senso di imbarazzo, di inadeguatezza.

– Perché vuole affidarmi questo lavoro? Intendo: perché proprio io? Ho ereditato la bottega da mio padre recentemente e non sono lontanamente esperto come i fabbri in città.

Il mercante sorrise. – Conosco tuo padre, so che è un brav’uomo e, se oggi posso offrirti questa cifra, è anche per merito suo. Inoltre, sento di potermi fidare dite.

“Mi pare che senta tante cose” pensò il giovane. Forse il mercante era pazzo, forse non le aveva nemmeno tutte, quelle monete d’oro.

L’uomo mise sul tavolo un sacchetto in pelle, che tintinnò al contatto con il legno. Il mercante sciolse il laccio che lo chiudeva e ne estrasse tre dischetti scintillanti.

– Qui sono quindici monete. Quando tornerò dal mio viaggio in Oriente, tra circa sei mesi, ti darò le rimanenti. Nel frattempo, considera queste come una caparra. Paga i materiali, estingui i debiti, ma se il pugnale non sarà perfetto, sappi che farò in modo di riavere indietro tutta la somma.

Con questa minaccia, il mercante schiuse le labbra in un sorriso caldo e con un cenno di saluto lasciò la bottega, mentre il giovane impietrito osservava il disegno. Poco dopo, il fabbro iniziò a fondere il metallo. Sentiva il calore della fucina sulla sua pelle, quello strano senso di piacere sulle guance.

Osservava il metallo sciogliersi, guardava quel materiale potente cedere al calore infernale del fuoco che ardeva. Si ricordò di quando suo padre lo aveva portato per la prima volta nella fucina, ripercorse mentalmente le sue parole, la sua voce dolce.

– Vedi – gli aveva detto il padre indicando lo zio che fondeva il metallo – quel materiale che ora lo zio sta lavorando è lo stesso da quando Dio ha creato il cosmo. Il metallo è come una fenice: potente e immortale, che rinasce ogni volta che si distrugge fondendosi. – Il fabbro rivedeva il sorriso del padre mentre gli descriveva tutte le leggende legate a quel meraviglioso materiale. Ma lui non ascoltava. Pensava alle sue parole: “quel materiale è lo stesso da quando Dio ha creato il cosmo…” Il piccolo ripensava a quell’enigmatica frase, ma non riusciva a comprenderla a fondo.

Ora che era cresciuto, ora che anche lui lavorava quella mitica creatura che è il metallo, il fabbro capiva. Pensava a tutte le vite che stavano ardendo davanti a lui, a quanti prìncipi avesse servito, a quanti piatti avesse cotto, a quante gemme preziose avesse sorretto.

Amava il suo lavoro, perché quel materiale così forte da riflettere la luce del sole lo faceva viaggiare per i secoli, lo portava a sognare in epoche passate, dove quel metallo aveva vissuto. Gli piaceva pensare che al suo interno fossero come imprigionate per l’eternità tutte le vite, tutti i sogni e i pensieri di coloro che ne avevano fatto uso. Poteva sentirle, poteva sentire i loro pianti e le loro risate.

Iniziò a lavorare il pugnale, stando attento a riprodurre esattamente i ricami disegnati dal mercante. Gettò un occhio al sacchetto di pelle che teneva in un angolo della fucina. Non aveva nemmeno toccato quell’oro, aveva paura di fallire, aveva paura che il mercante sarebbe stato troppo esigente.

Mentre lavorava, il giovane continuava a sognare, ripercorreva la sua infanzia passata ad osservare la sua famiglia al lavoro. Si accorse di com’era cresciuto in fretta, quanto avesse desiderato la fucina, tanto da sentirla quasi casa sua. La sua vita era stata scandita dal metallo, dagli oggetti che creava suo padre, dalle punte acuminate dei coltelli che forgiava con amore. Suo padre adorava lavorare le armi, il fabbro pensò che sarebbe stato orgoglioso di ciò che stava realizzando.

Batteva con forza il coltello, finché non ottenne un pugnale perfettamente affilato, perfettamente letale. Sorrise, soddisfatto del suo lavoro.

“Ora viene il difficile” pensò, mentre iniziava a inciderlo e a decorarlo. La mano ferma si muoveva attentamente, ornando l’arma con la precisione di un pittore, muovendo lo stilo come fosse il suo pennello.

Quando ebbe finito, uscì alla fucina per ammirare il suo lavoro. La luce ambrata del tramonto conferiva al coltello un’aura quasi mistica, come se brillasse di luce propria. Affilato, preciso, armonioso. Forgiato da un Dio.

Il giovane non riusciva a credere ai suoi occhi, a ciò che le sue mani avevano appena creato. Si girò la lama tra le mani, ammirandone ancora una volta i ricami fini e perfetti.

Poi, accadde qualcosa di strano. Il Sole tramontò, la luce smise di far brillare la lama del pugnale, che ora pareva minaccioso, freddo e pesante nelle mani del fabbro, che ne ebbe paura.

Sentiva il potere di quella lama, di quel metallo lucido, letale.

“Sarà il mio portafortuna” aveva detto il mercante, “oppure la sua rovina” aveva sussurrato il fabbro. Ora gli sembrava che quel coltello non fosse più opera di un Dio, ma di un demone.

Tornò alla fucina, colto da un brivido gelido e improvviso che gli attraversò la schiena. Prese un respiro, mentre teneva in mano il frutto del suo duro lavoro. Si sentiva tentato dal potere che quel magnifico pugnale poteva offrirgli. Sembrava come chiamarlo. “Non vendermi” diceva “ti renderò ancora più ricco del mercante”. Il giovane era terrorizzato da quel potere, da quella fredda perfezione che ora gli parve demoniaca.

“Sono pazzo” si disse. E forse era veramente così.

Lasciò cadere il pugnale sul fuoco, lasciò che il calore lo squagliasse come cera.

“Sono pazzo” si ripeté il fabbro, lanciando un’occhiata a quella manciata di monete lasciate in un angolo. Erano lì, pronte a tintinnare nelle sue tasche, ma il fabbro aveva fatto la sua scelta.

Osservava la sua creatura lasciarsi sconfiggere dalla forza dell’infernale fiamma che ardeva sotto di lui.

– Scusa – disse il fabbro, senza sapere se stava parlando a sé stesso o al pugnale.

Ma mentre pensava alla rabbia del mercante quando avesse scoperto cos’era accaduto al suo coltello, qualcosa dentro di lui si accese.

Iniziò a lavorare, questa volta senza pensare a niente. Lavorava, fondeva, forgiava. Come una macchina, senza fermarsi, per tutta la notte. Sentiva la fronte sudare, le palpebre calargli sugli occhi, ma non si fermava, non voleva fermarsi. Sentiva che stava facendo la cosa giusta.

Stette nella fucina a lungo; poi, quando finì il lavoro, lo chiuse in un fodero e dopo in un cassetto di legno e se ne andò a dormire distrutto, le braccia doloranti.

Passò del tempo. Il fabbro ogni giorno lanciava uno sguardo pensieroso al cassetto chiuso, per poi distoglierlo subito dopo, come fosse il Sole: non lo si può osservare troppo a lungo senza sentire gli occhi appannarsi. Così si sentiva il fabbro quando fugacemente guardava il cassetto, scottato da una paura particolare, radicata, che si ritirava appena voltava lo sguardo.

Un dì, il mercante si presentò alla fucina, sorridente e solare. Il giovane si costrinse a stare calmo. – Allora: dov’è il mio tanto desiderato pugnale? disse sfregandosi le mani. Il fabbro aprì il cassetto, prese il pugnale, ancora chiuso nel suo fodero di pelle, nell’altra mano raccolse da terra il sacchetto colmo di monete.

– Non ne ho presa neanche una – disse a bassa voce il fabbro. Il mercante fece come se non avesse sentito. – Quindi posso vederlo? Il giovane annuì, aprì il fodero. Il mercante smise di sorridere, perché quello non era il suo pugnale.

Quello che aveva davanti agli occhi era un banale coltello di buona fattura, tagliente e pratico, ma senza nessuna grazia aggiuntiva. – Perché non hai fatto ciò che ti avevo richiesto? – disse il mercante, la voce ruvida e rabbiosa.

– Venga con me, fuori dalla fucina. Dopo, potrà dire tutto ciò che pensa e riprendersi il suo denaro.

Il mercante furioso lo seguì, il coltello stretto nel pugno. Fuori, l’aria era tiepida, le nuvole oscuravano la luce calda del Sole.

– Alzi il pugnale, lo rivolga verso la luce – disse il fabbro. Il mercante lo guardò con aria interrogativa.  – Lei lo faccia, si fidi.

Riluttante, il mercante sollevò l’oggetto. Le nuvole si aprirono, l’aria si fece fresca e la luce illuminò la lama, che risplendeva più di un diamante. Quando il mercante abbassò la mano, non poteva credere a ciò che vedeva. Il pugnale ora era ricamato interamente, con disegni armoniosi su tutta la lama lucida. Ancora più bello di ciò che aveva richiesto.

Il mercante guardò stupefatto il fabbro. – Come è possibile? – chiese. Il giovane sorrise. – A volte bisogna solo fare la cosa giusta, senza pensare alle conseguenze. Il Bene ripaga.

Il mercante posò il denaro nelle sue mani, ed il fabbro divenne il più celebre e stimato di tutta la valle.