L’UOMO NERO

RACCONTO SEGNALATO

RONCADOR MARCO

Liceo “G. Prati” Trento

 

L’uomo nero

Calava 11 sole: il vento scivolava tra le dune di sabbia dorata ed era così mite che i rari arbusti secchi nemmeno si accorgevano di lui, e tacevano.

A sud della città, il deserto si estendeva per chilometri, con il suo labirintico susseguirsi di dossi e valli: un mare di sabbia, sassi e polvere. L’aria era fresca, accogliente e quieta dopo una giornata di afa, ma era un inganno effimero: 11 sole sprofondava nella terra e compariva la platea delle stelle, e in poco tempo il freddo cominciava a mordere, sempre più forte, mentre un magro spicchio di luna trasformava tutto in argento opaco. I grilli cantavano la loro litania incessante; la natura inscenava, di nuovo, Il suo monotono dramma.

Poi, lentamente, al brusio degli insetti andò aggiungendosene un altro, sommesso e lontano, che diventava sempre più invadente: all’orizzonte comparve una schiera di uccelli grigi, enormi, velocissimi. Volarono sopra la città addormentata.

Fu come se il sole volesse sorgere là, tra le case: si alzarono lingue di fuoco, si alzarono urla e sirene.

Il deserto si illuminò come all’alba, di un rosso pallido e cremisi.

Un odore metallico e nauseante lo accolse quando di colpo rinvenne, disteso scompostamente sul terreno gelido: sopra di lui aleggiava una nube di polvere e fumo che irritava la gola e offuscava la vista; grida storpiate laceravano quella coltre, e nei suoi flussi danzavano i riflessi delle fiamme.

Pensieri confusi vorticavano nella sua testa, mentre a fatica si alzava, dolorante, con addosso la sensazione di essere un miracolato. Intorno a lui, il mondo era trasformato in un inferno: le case erano ridotte a cumuli di macerie, spesso in preda al fuoco, le strade ricoperte da mattoni e pezzi di muro; ovattati e distanti giungevano i rumori di una città sconvolta e in preda al terrore, mentre le fiamme ruggivano, divorando i detriti.

Vagava nella penombra come un sonnambulo, lo sguardo vuoto e le mani abbandonate lungo i fianchi, arrancando su quel terreno sconnesso. L’istinto lo guidò fino ai piedi di un ammasso di mattoni; indugiò con lo sguardo su quelle macerie, dall’aria stranamente famigliare.

Di colpo fu travolto dalla consapevolezza: si ritrovò a scavare a mani nude nel cumulo, spezzandosi le unghie mentre scansava furiosamente í pezzi di mattone, con il respiro reso rauco dalla polvere che sollevava. Scavò fin quando, con un forte scricchiolio, spostò una grossa trave, rivelando una nicchia tra i rottami. Lo investì l’odore del sangue: gli apparvero corpi schiantati, con gli arti scomposti da pieghe innaturali, la pelle violacea, tumefatta e coperta da ustioni; tre paia di occhi spenti, in volti sporchi di sangue e polvere.

Indietreggiò, inciampando e cadendo a terra, il volto sfigurato da un grido, negli occhi in lacrime l’immagine atroce di quei cadaveri: un uomo, una donna, una bambina. Suo padre, sua madre, sua sorella.

Viaggiò. Passarono i mesi.

Camminava rasente i muri delle case, con Io sguardo basso, il cappuccio in testa e le mani nascoste nelle maniche del giaccone; il peso di un grosso zaino gli piegava le spalle e un brivido gli saliva dal braccio destro, dove la fredda lama di un coltello sfiorava il suo polso.

Il tremore che lo pervadeva incrinava il suo respiro affannato, i suoi occhi incollati a terra erano privi di sguardo e il suo incedere era quello del condannato a morte. Il peso che aveva sulle spalle era il risultato del lavoro di mesi: un ordigno esplosivo facile da nascondere, ma potente quanto bastava; si attivava tagliando un filo di spago, che spuntava dalla tasca dello zaino.

Mentre si dirigeva verso la stazione ferroviaria, in pancia gli ribolliva la sensazione che lo accompagnava da mesi; un fuoco che gli aveva dato la forza di attraversare da solo cinque Paesi, per arrivare al mare e attraversare anche quello, di nuotare per chilometri quando il barcone era affondato. Un fuoco che aveva covato dentro, in quei mesi in Europa, con le istruzioni dei compagni in Iraq che gli arrivavano in modo sporadico e confuso. Un fuoco alimentato da una solitudine prematura e che invocava vendetta: l’odio per gli occidentali.

Li odiava da quel giorno in cui le loro bombe avevano distrutto la sua città, da quel momento in cui si era specchiato negli occhi vitrei dei suoi cari massacrati. Avevano portato la guerra nel suo paese, avevano portato paura e morte.

Quel giorno avrebbe reso loro quello che gli spettava; quel giorno sarebbe morto per avere giustizia e vendetta.

La banchina era deserta e nulla turbava il silenzio che pervadeva quell’aria tagliente. Lui sedeva su di una panca: nella quiete sentiva il pulsare forsennato del suo cuore e il suo respiro affannato creava dense nuvolette bianche. Le ombre della campagna erano ormai lunghissime e una sfera infuocata arrossava il cielo ad occidente; in silenzio, guardava con occhi socchiusi e lacrimanti l’ultimo sole della sua vita.

Quando giunse il buio, il silenzio fu rotto dal vociare delle persone che, mano a mano, giungevano in stazione.

La fredda voce dell’altoparlante risuonò come una sentenza, e il treno arrivò con uno stridio metallico: raccolse lo zaino e il poco coraggio che gli era rimasto, e seguì la folla a bordo.

Un fischio del controllore, la porta si chiuse e il treno cominciò la sua corsa.

Lui si mise vicino ad uno dei finestroni, in piedi. La sua ombra sul vetro gli permetteva di scrutare il mondo esterno: nella notte di plenilunio, le colline parevano ammantate

da una coltre d’argento. Ebbe un sussulto: gli parve quasi di sentire il canto dei grilli, nell’immensità del deserto, e l’odore di casa si ripresentò in quell’aria asettica.

Sentì che la determinazione feroce che lo aveva guidato fino a quel momento lo abbandonava; allora si tolse lo zaino dalle spalle, vi inserì una mano e fece scorrere il coltello fuori dalla manica.

Accostò la lama al filo; i cadaveri dei suoi parenti gli si presentarono davanti agli occhi, come fantasmi. Alzò lo sguardo sui loro carnefici.

La bambina si sentiva proprio fortunata: per una volta lei e la sua mamma avevano trovato un posto a sedere. Di solito le toccava stare in piedi, M mezzo ad un sacco di persone, e non riusciva neanche a vedere fuori dalla finestra, e le facevano male le gambe e la sua mamma diceva che era troppo grande per tenerla in braccio. Ma quel giorno era stata proprio fortunata. Si alzò in piedi sul sedile e guardò quei poveretti che erano rimasti senza posto; spalancò la bocca per la sorpresa: uno di loro era l’Uomo Nero.

L’Uomo Nero aveva una sciarpa che gli copriva la bocca e il cappuccio sollevato, era appoggiato al finestrino e guardava fuori: sembrava stanco, forse per via di quel grosso zaino che aveva sulle spalle.

La bambina non aveva paura di lui: il papà le aveva detto che l’Uomo Nero portava via i bambini cattivi, e lei era sempre stata brava.

Ad un certo punto, l’Uomo Nero appoggiò lo zaino a terra e ci mise dentro un braccio, poi cominciò a guardarsi intorno con i suoi occhioni scuri, finché non incrociò il suo sguardo. La bambina gli sorrise e gli fece ciao con la mano. L’Uomo Nero la stette un po’ a guardare: forse cercava di capire se era una brava bambina. Lei gli sorrideva fiduciosa.

Il suo sguardo era inchiodato agli occhi azzurri di quella bambina, ipnotizzato dal suo sorriso; la mano gli tremava, mentre stringeva nervosamente il coltello fra le dita. Cercò disperatamente un’ultima goccia di coraggio per fare quel piccolo gesto, quel movimento appena accennato del polso che avrebbe portato a termine il suo obiettivo. Un piccolo gesto, e il vagone sarebbe esploso; un piccolo gesto e ci sarebbero stati urla e terrore; un piccolo gesto e qualcuno, un padre, un fratello avrebbe cercato il volto della bambina, avrebbe scavato a mani nude nelle macerie, avrebbe pianto sul suo corpo sventrato. Un piccolo gesto e avrebbe avuto la sua vendetta, avrebbe fatto giustizia. Cercò la rabbia dentro di sé, la ravvivò riportando alla mente i corpi dei suoi parenti accasciati nella polvere; si sforzò di vedere in quella bambina gli occhi di un assassino, ma il modo in cui le due immagini cozzavano l’una con l’altra lo spiazzavano.

Alla fine tornò in sé stesso.

Strinse i denti e trovò il coraggio.

L’Uomo Nero tenne d’occhio la bambina per un po’, tenendo il braccio nello zaino. Alla fine estrasse la mano, se lo rimise in spalla e riprese a guardare fuori dal finestrone. La bambina lo osservò, sorpresa e perplessa: non credeva che l’Uomo Nero potesse piangere.