ANCORA E POI BASTA

RACCONTO SEGNALATO

TOMMASI CHIARA

Liceo “L. Da Vinci” Arzignano Vi

Ancora e poi basta

Un candida lenzuolo bianco avvolge le sue fragilità, mentre giace nel suo minuto rifugio.. Sul suo collo, ancora impresso il segno di una notte trascorsa insieme, il segno di un sentimento vero che con difficoltà sarà cancellato dai miei ricordi. Il mio sguardo scivola sulla clavicola tagliente, quel tiepido cuscino su cui posavo il mento ogni sera. Lei studiava biologia, io studiavo lei. Il mio argomento preferito. Il mio cuore è ancora inevitabilmente intrecciato al suo, e ogni mio battito mi riconduce a lei. Le mie dita percorrono attente il suo volto Un’espressione accigliata, sofferente, rimane stampata sul suo viso immacolato, le labbra semiaperte in un gemito di dolore. Mille rimorsi mi straziano il cuore mentre scruto quei suoi delicati lineamenti. Controllo i segni rossi sulle mie braccia, pelle intrappolata sotto le sue unghie che non mi appartengono più. Ho la mente ancora annebbiata: mi diceva sempre di non bere perché diventavo violento, e i bambini si sarebbero spaventati. Non volevo essere un cattivo padre, ma non l’avevo mai ascoltata. Un lieve pizzicore assilla la mia mano destra, e tento di ricordare casa sia successo, ma ciò che trovo è solo un grande vuoto. Un segno rosso sul mio palmo è l’unico indizio che mi resta a ricondurmi sui miei passi. La domanda che abita la mia mente è sempre la stessa: cos’è successo? Vorrei alzarmi, ma la testa pesante mi incatena al letto: sono prigioniero del mio stesso corpo. I miei occhi crollano sul tappeto di fibra sintetica che lei mi aveva pregato di comprare. Lo adorava, e io adoravo renderla felice, anche se erano più le volte in cui la facevo arrabbiare, e questo mi mandava su tutte le furie. Ti ho forse fatta arrabbiare, di nuovo? È per questo che fingi di non sentirmi, e giaci immobile? Trovo coraggio, mi alzo e quasi crollo, ma devo essere forte per lei, perché io sono l’uomo di casa. Mi affretto, oscillando fino alla camera dei bambini; un triste risveglio mi coglie, e crolla il mondo sotto i miei piedi. Cerco dì reggermi ma il mio cuore è precipitato, così come la mia ragione. Corro in cucina e cerco la prova, in preda al panico più affannato, mentre il mio petto è dilaniato dal terrore. Lunga e affilata, quasi forgiata dal diavolo, una lama imbrattata di rosso fuoco troneggia tra i cocci di una bottiglia di assenzio. La mia mente tenta di fuggire dall’inevitabile. Mi sento soffocare e cerco disperatamente un tasto per riavvolgere il nastro e ricominciare daccapo, ma non esiste. Raccolgo il coltello: il suo tocco mi fa vacillare, una sequenza di ricordi veloci mi trafigge il petto, togliendomi il respiro. Il suo possente manico si incastra perfettamente nel solco arrossato del mio palmo, come il pezzo mancante di un puzzle lasciato a metà. Le mie dita sudate e tremolanti percorrono le quasi impercettibili cavità di un corsivo ricamato impresso sulla lama. In un breve istante di lucidità, riesco a focalizzare l’immagine riflessa. Seguo con gli occhi le mie dita che sfiorano diffidenti il contorno del mio volto. Chi è quel mostro catturato nel riflesso? Nei miei occhi, divenuti così incavati e spenti, vedo solo iraconda crudeltà, e vengo scosso da un tremito. Vorrei poter leggere cosa riporta quella scritta, ma le lacrime inondano i miei occhi e mi annebbiano la vista. maneggio quell’oggetto con rabbia, come fosse l’artefice del mio passato, la causa dei miei peccati mortali. Impiego tutte le mie energie nel vano tentativo di distruggerlo, di porre fine alla sua dolorosa esistenza, ma l’unico risultato di questa battaglia è un rivelo di sangue fuoriuscente da un taglio sul mio polpastrello. I miei pensieri corrono ad una velocità innaturale, e vedo il volto dei miei figli, di mia moglie, di quella casa tanto bramata. Rivivo la letale sensazione di una bottiglia di troppo, e dell’avventata reazione ad ogni parola. Le orecchie mi ronzano e non odo il lontano e ovattato suono di sirene. Sento le urla, il panico, il dolore di vite spezzate ingiustamente. Voglio tagliare questa parte della mia storia, eliminarla per sempre. Finirò all’inferno e farò i conti con il diavolo di me stesso. Impugno quel diabolico strumento di morte e lo stringo forte, come se il mio dolore potesse renderlo più tagliente e affilato. Lo porto ai polsi e trafiggo la mia carne con furia, desideroso di far uscire tutto il male che è impregnato nella mia anima: una guerra contro me stesso. Spingo il coltello nel profondo, nessun male potrà farmi dimenticare il mostro che sono. Mi sento sfinito mentre il sangue sgorga dalla mia ferita. Ciò che esce è liquido scuro, nero come la morte che presto mi strapperà da questo mondo e con le sue grinfie maligne mi terrà prigioniero nell’oscurità, a scontare la mia pena. Il coltello scivola dalle mie mani e cade sul gelido suolo, con un tonfo crudele, assordante. Crollo sulle ginocchia e mi trascino verso quella camera che un tempo chiamavo “nido d’amore”. Rivolgo un ultimo sguardo alla mia amata e la imploro di perdonare l’imperdonabile. Con un ultimo sforzo, afferro la sua mano e ricordo il giorno in cui le misi quella fede al dito. Intreccio le mie dita alle sue, ancora, mentre il freddo invade il mio corpo. E poi basta. Ogni frammento di cuore viene spazzato via: ricordo a me stesso di essere un mostro, indegno di sfiorare una creatura così fragile e pura. Dalle mie labbra violacee zampilla un urlo straziante. Un groviglio di passione, amore, dolore, rimorso, odio, percepisco ogni singola corda vocale allungarsi fino allo sfinimento, mentre permetto ai miei demoni di lacerarmi il petto, di sbranarmi il cuore. Non c’è nulla di umano in questo mio grido. Le sirene sono sempre più vicine, ogni scricchiolio sembra amplificato e perdo il senno. Sono diventato pazzo, pazzo dì un amore che mai potrà essere amore, pazzo di un sentimento che non tutti gli uomini sono nati per provare. Uno scalpiccio di passi frenetici mi rimbomba nelle orecchie, e mentre la porta d’ingresso si spalanca in un frastuono tremendo, osalo il mio ultimo respiro.