LE LAME DI AKIHIRO

di Antonio Prosdoci

IIS PETRUCCI FERRARIS MARESCA CATANZARO

INTRODUZIONE

«Dai nonno, raccontami della tua vita! Vieni a sederti accanto a me!» «Un attimo Akihiro¹, devo ricordarti che ho 88 anni, sono un povero vecchio. Ahi, che dolore, la mia povera schiena». Guardo il bellissimo viso di mio nipote, fresco, solare, curioso, dolcemente rivolto alla vita.

Ha 20 anni, ma sembra che ne abbia la metà, guardando il suo volto mi ritornano in mente i ricordi della mia giovinezza, tutti racchiusi dentro le pieghe rugose della mia faccia.

«Cosa vuoi sapere?» chiedo con la voce affaticata e tremolante «Mi avevi promesso che mi avresti raccontato della tua vita e insegnato la nobile arte della cucina, ricordi nonno?» «Ah si, adesso ricordo. Dai siediti e apri bene le orecchie, perché la mia storia è molto lunga e tu hai molto da imparare!»

CAPITOLO 1°

Avevo all’incirca la tua età quando giunse nel mio villaggio “Buraku” qualcuno che avrebbe svegliato il lungo letargo di Gifu. Siamo nell’859 d.C., la dinastia regnante dei Tang è in declino.

Gifu, nella regione di Harima, era adagiato tra le montagne e durante l’inverno le casette di legno sonnecchiavano, sbuffando nuvole di fumo che delineavano nel cielo strane forme di corolle di fiori, e si svegliavano nei mille colori della primavera e nelle dolci e fresche acque dei fiumi durante l’estate, nei quali si levavano festanti urla di giocosi bambini.

Le ciottolose stradine di Gifu si inebriavano in alcuni momenti della giornata degli odori dolci e acri insieme, che provenivano dalle cucine, dove le donne, con amore e con un’astuzia intrigante, preparavano la soba 2. Un giorno trovandomi con il muso schiacciato contro il vetro della finestra della cucina della mia le³ incuriosito mi nascondevo ad ammirare mia Morma mentre con un Deba bŌchŌ4 tagliava il pesce per il Kaisen-don 5, e l’espressione del suo viso trasmetteva piacere e divertimento nello stesso tempo e fu in quel momento che il desiderio di capire mi fece uscire dall’angolo dietro la finestra dove mi ero nascosto.

CAPITOLO 2°

Mia mamma si chiamava Momoko¹, per via del colore della sua carnagione che ricordava quella delle pesche, era giovane, una donna bambina quando io nacqui, ma forte come un albero di Sakura.

Era anche piccola e graziosa, con grandi occhi neri e lunghe ciglia color dell’ebano, aveva i capelli lunghi e neri e mani sottili come giunchi. La sua bellezza era motivo di ammirazione tra tutte le genti delle valli che circondavano Gifu, ma seppur bellissima non aveva accanto a sé un uomo, ed io non avevo un padre, eppure tra le valli della mia terra ero felice e amato.

Fin da bambina aveva imparato l’arte della cucina e il modo in cui tagliava il pesce con il coltello era quasi incantevole, ammaliante, ipnotico, non poteva essere reale, sembrava dirigere un orchestra con una lama affilata e lucente.

Un giorno Momoko agitava il coltello e con maestria affilava il corpicino ormai inerme di fronte a lei di un koi2, e nel guardarla sentivo un’energia nel mio corpo indescrivibile, una voglia irrefrenabile mi pervase, volevo prendere un altro coltello e fare quello che stava facendo lei, afferrai la maniglia e aprii la porta delicatamente, per non suscitare le ire di mia madre, che protestava ogni qualvolta qualcuno entrava nel suo regno.

Insieme a me penetrò all’interno dell’oscura cucina la luce tenue del mattino e il freddo intenso, mentre il fumo del mio respiro si spandeva all’interno. La cucina odorava dei profumi più vari, sembrava un’orchestra sinfonica di profumi di spezie e aromi, e le pentole che bollivano rimbrottavano bolle di fumo intenso, mentre i mestoli, i piatti e le stoviglie sembravano un inno all’armonia dell’universo. «Ti piace quello che vedi Akihiro?» chiese Momoko. E come non poteva non piacermi era tutto un luccichio di coltelli e una danza acrobatica delle mani. «Vuoi imparare a fare il sashimi3?». «Si, cosa devo fare?» risposi. Mi guardavo intorno e vedevo una miriadi di coltelli tutti diversi che sembrava ti guardassero con i denti stretti come quelli di uno squalo. «Prendi il tako hiki4 e taglia il sāmon5». Iniziai a cucinare il mio piatto con il tremore di un ragazzino alla sua prima esperienza d’amore mentre le mani si muovevano quasi da sole guidate dall’istinto, in un intreccio di dita nodoso e a volte impacciato. Guardavo il piatto finalmente finito, avevo messo un po’ di tempo per prepararlo ma è come se i minuti si fossero fermati, in un tempo senza tempo, indeterminato e unico.

 CAPITOLO 3°

Gli anni passarono e io divenni un giovane e abile cuoco. Ero cresciuto insieme a mia madre tra i ciliegi in fiore, le camelie, le azalee e le peonie in primavera, mentre in estate le ragazze raccoglievano i loro capelli in nihogami¹ e li abbellivano con i kanzashi² di fior di loto e attraversavano le strade di Gifu per farsi ammirare e sedurre i ragazzi con la loro avvenenza.

Anche mia madre amava acconciare i suoi capelli e la sua bellezza. Dentro la cucina, si armonizzava con stoviglie di ogni genere e con i profumi dei suoi piatti, e nella locanda, che da un po’ di anni avevamo aperto si riunivano persone di ogni ceto e carattere e assaporavano con un piacere quasi di estasi i piatti che noi cucinavamo con maestria e dedizione nel regno di mia madre.

Il tranquillo scorrere delle giornate fu però interrotto nel mese di dicembre, quando io avevo da poco compiuto i 25 anni e avevo arricchito la esistenza di amici e di graziose otome 3 . Una sera mentre la neve alta ricopriva i tetti di Gifu, e i camini sbuffavano il fumo verso il cielo, le strade si riempirono di orchi in abiti di paglia e alti stivali, con spade appuntite e pugnali dal manico di madreperla, attraversavano le strade ciottolose al grido canzonatorio «C’è qualche bambino che piange qui?» i bambini correvano veloci come lepri, ridendo e urlando, nascondendosi nei posti più impensabili, e all’improvviso uscirono dai nascondigli facendo linguacce agli orchi e lanciando chicchi di riso propiziatori. Era il giorno della festa di Namahage4, che riempiva di divertimento le strade del villaggio. Nel fragore delle risate e nella confusione dell’andirivieni delle persone, si distinse nel pallore della neve e nella luce della luna che in essa si rifletteva, una figura diversa dagli orchi, che avanzava verso la locanda in modo sicuro e austero ed io, che ero sulla porta, guardai impaurito, ma nello stesso tempo affascinato dalla sua falcata da guerriero. Ma più si avvicinava e più sembrava avere lineamenti gentili e raffinati ed il suo corpo, benché rivestito di un armatura pesante che luccicava al chiarore della luna, sembrava modellato e aggraziato in forme che da vicino erano palesemente femminili. Era una “Kunoichi”5 . La guardai mentre entrava nella locanda e rimasi inebriato dal suo viso dai lineamenti forti e quasi rigorosamente maschili, ma nello stesso tempo dolci e sensuali, con la sua bocca carnosa e gli occhi neri e la pelle eburnea come la neve, e i capelli neri come l’inchiostro.

CAPITOLO 4°

Mi avvicinai e guardandola negli occhi le chiesi con voce tremula se aveva bisogno di qualcosa e lei mi rispose che aveva bisogno di una stanza e di un pasto caldo. La invitai ad accomodarsi e mi resi immediatamente conto della sua tristezza e malinconia, che aveva la forma di una immensa solitudine nel languore dei suoi occhi. Si mise a sedere e mentre mangiava guardava fuori dal vetro opaco della sala. Quando vi fu una maggiore tranquillità mi avvicinai e le chiesi da dove veniva e, a quella domanda il suo corpo si irrigidì, e con scatto felino si allontanò verso la sua camera.

Il giorno seguente il sole splendeva, i fiori brillavano sotto la brina, e dagli alberi scendevano ghiaccioli che ornavano i loro rami. Apparve nella sala, vestita della sua divisa da guerriera, l’armatura, una corazza nera dalla forma arrotondata levigata nelle sue forme sul petto, e dalla vita e dalle spalle pendevano grandi pannelli quadrati di metallo colorato per proteggere le gambe, come se fossero branchie, con la sua spada luccicante e il pugnale racchiuso nel suo fodero di madreperla, ed il suo elmo con una grande criniera di bronzo, due lame appuntite che richiamavano i baffi di animali mitologici e preistorici. Mi avvicinai con timore e con la paura che accadesse ciò che era successo la sera precedente, le chiesi se andava tutto bene e se aveva bisogno di qualcosa, ma lei rispose stentatamente e uscii senza dire una parola. La seguii furtivamente e arrivai nella grande distesa ricoperta da un manto di neve. Iniziò a spostarsi velocemente come una faina, e le sue mani dopo aver sguainato le spade iniziarono a disegnare nell’aria cerchi e girandole di ogni tipo, mentre emetteva suoni disarticolati e sofferenti e contemporaneamente i suoi piedi sembrava stessero danzando una danza primitiva.

“Mei”, germoglio di vita, questo il suo nome, si girò verso di me e con aria sorpresa mi invitò a camminare al suo fianco e cominciammo a narrare le storie delle nostre vite.

Da quel giorno lunghe passeggiate accompagnavano le nostre giornate insieme, e flussi di parole e pensieri uscivano dalle nostre bocche senza che noi ce ne accorgessimo, grandi risate e sguardi persi dentro i nostri occhi.

Incominciò piano piano a diventare parte della nostra quotidianità trascorrere ore all’interno della cucina dove lei incantata guardava me e mia madre cucinare.

CAPITOLO 5°

L’inverno passò. Gli alberi di ciliegio fiorirono e con essi tutte le valli si riempirono di fiori e lungo i ruscelli, che le attraversavano, i fior di loto ricoprivano il passaggio delle carpe, mentre le fanciulle iniziarono le loro passeggiate lungo i sentieri profumati, gli uomini con le loro asce tagliavano la legna e iniziavano le provviste per l’inverno successivo.

Le mie giornate si erano riempite di una luce nuova da quando Mei¹, dolcemente e lentamente era entrata a far parte della mia vita e della mia esistenza e nelle serate di luna piena il nostro amore era ancora più illuminato e pieno di passione. Non sapevo nulla della sua vita: da dove veniva, perché era giunta da noi e se aveva una famiglia, ma per me non era importante. Ero l’uomo più fortunato del mondo fino al giorno in cui una voce giunse alle mie orecchie: «Salve amico!», mi voltai e vidi davanti a me un uomo, che indossava, benché l’arrivo della primavera avesse reso l’aria più tiepida, abiti pesanti e scarpe consumate come da un lungo cammino. In quello stesso istante sopraggiunse Mei che nell’incrociare gli occhi dell’uomo fece una smorfia che deformò tutta la bellezza del suo viso fino a farlo quasi sembrare abbrutito e senza dire una parola scappò via verso la camera sopra. L’uomo, che si era tolto il pastrano sudicio, con il quale si ricopriva, mostrò una lunga spada legata alla cintola da un fodero di pelle ornata da incisioni antiche in oro e nel frattempo si era seduto e assaporava una bevanda di sakè 2.

Calò la notte, attraversata da un forte vento di scirocco che faceva tintinnare le foglie degli alberi e i vetri delle finestre, fui colto da un risveglio improvviso e da un brivido che mi attraversò la schiena, mi alzai e mi diressi verso la stanza di Mei. Aprii la porta e la stanza era vuota. Mi precipitai fuori, le strade ciottolose illuminate dalle lanterne colorate, e incominciai a correre verso la valle, quando all’improvviso udii un tintinnio di spade, di armi che sfavillavano alla luce della mezzaluna. Mei e l’uomo che era arrivato all’improvviso stavano combattendo e come due guerrieri incrociavano i loro corpi e le loro lame che disegnavano ogni possibile forma nell’aria del chiarore dell’alba. I corpi erano avvinghiati quando il suono soffocato della voce squarciò il cielo, l’uomo tremò ed emise un gemito mentre con le mani tentava di coprire lo squarcio che aveva aperto il suo petto. Seguii la concitazione dei minuti successivi. Chiesi a Mei spiegazioni, ma guardandomi con degli occhi furenti e imploranti al tempo stesso, mi fece capire di non domandare e di aiutarla a seppellire il corpo. Cosi fu. Diventammo complici più che mai, ma non abbastanza da farla rimanere con me.

Il mattino seguente niente di lei ritrovai nella sua stanza: solo un fiore di loto poggiato sul suo letto e una ciocca di capelli neri. Se ne era andata senza una parola. In quel momento pensai che non l’avrei più incontrata mentre le giornate ripresero dopo la disperazione a trascorre nel regno dei coltelli di mia madre.

«Ma non sarebbe stato cosi mio caro nipote! L’amore ritorna sempre, ma ora sono troppo stanco, andiamo a dormire».

 

NOTA ALL’INTRODUZIONE
1 Akihiro: Nome di cui significato è “immensa gloria”
NOTE AL CAPITOLO 1°
2 soba: E’ un sottile tipo di pasta di grano saraceno avente forma simile ai tagliolini o agli spaghetti, tipico della cucina giapponese.
3 Le :Casa giapponese.
4 Deba bŌchŌ: Sono dei coltelli di diversa taglia, usati principalmente per tagliare il pesce.
5 Kaisen-don: E’ un piatto fresco con frutti di mare serviti sopra del riso bianco caldo.
NOTE AL CAPITOLO 2°
1 Momoko: Nome il cui significato è “piccola pesca”
2 Koi: La carpa koi più specificamente nishikigoi o carpa giapponese
3 Sashimi: Il sashimi è un piatto della cucina giapponese che consiste principalmente in pesce o molluschi freschi
4 Tako hiki: coltello comunemente usato per affettare il pesce per il sashimi
5 Sāmon: salmone ,pesce usato per la preparazione del sashimí.
NOTE AL CAPITOLO 3°
1 Nihogami: Tipo di acconciatura tradizionale giapponese
2 kanzashi: Sono degli ornamenti usati nelle acconciature femminili tradizionali giapponesi
3 Otome: Fanciulle
4 Namahage: E’ un rituale che si svolge durante la celebrazione del capodanno
5 Kunoichi: E’ un termine che indica un ninja di sesso femminile
NOTE AL CAPITOLO 5°
1 Mei: Germoglio dì vita
2 Sakè: Bevanda alcolica

Lascia un commento