LE FORBICI MISTERIOSE

di Monica Simoncini

I.C. SONDRIO “CENTRO” G.P. LIGARI – Sondrio

Con gli occhi chiusi e le mani sui fianchi, dilatai le narici e trassi un profondo respiro. Il dolce profumo del pane della signora Lafitte mi giunse al naso, immediatamente seguito dal tanfo caratteristico del quartiere sud. Sentii un lontano sferragliare metallico e, riconoscendolo, sospirai. Cercai di godermi il meritato momento di riposo, aspettando che il rumore fosse troppo vicino per continuare ad ignorarlo. Allora, aprii svogliatamente un occhio, avvistando esattamente ciò che mi aspettavo di vedere: il signor Martin avanzava sulla strada fangosa, avvolto nella sua calda palandrana. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé, il mento alto e aveva un’espressione vagamente annoiata. Incrociai le braccia e mi strinsi nelle spalle, come se avessi avvertito solo in quell’istante la frizzante aria autunnale.
L’uomo sembrò accorgersi delle altre presenze umane che animavano il paese solo nel momento in cui posò gli occhi su un mendicante seduto davanti alla panetteria. Udendo i suoi lamenti, voltò il capo di scatto, disgustato, e appoggiò un piede a terra con energia sufficiente ad imbrattare di fango il poverino.
Spalancai la bocca e aggrottai le sopracciglia, assumendo un’aria indignata: era sicuramente stata un’azione volontaria. Come si permetteva? Si era preso la libertà di trattare male quell’uomo credendosi superiore solo per il fatto che di avere dei quattrini (molti, per la verità) in banca. Non gliene facevo una colpa, anzi, incarnava il mio sogno, ma se fossi stata al suo posto avrei aiutato il poverino dandogli, se non dei soldi, almeno un po’ di cibo. “C’è chi sa gestire la ricchezza e chi no…” pensai. Rientrai velocemente in bottega e afferrai una pezzuola scura. Uscii e mi avvicinai al mendicante, che cercava di pulirsi il viso con le mani, già abbondantemente sporche. Gli porsi lo straccetto e lui l’accettò volentieri, chinando il capo in segno di gratitudine. Rientrando, sorrisi compiaciuta e ribollii al pensiero del signor Martin.
Nel tardo pomeriggio, indossai il mio cappotto e m’incamminai verso il quartiere nord, avendo preso un appuntamento con l’attendente della signorina Dubois per prendere delle misure. Al ritorno, mentre avanzavo sul terreno ciottoloso completamente immersa nei miei pensieri, scorsi qualcosa luccicare sulla strada in penombra. Mi avvicinai, titubante. Quando fui abbastanza vicino, mi resi conto che si trattava di un coltello di metallo dorato la cui lama, sottile e più affilata di qualsiasi altra lama avessi mai visto, era lunga appena quindici centimetri e ripiegabile. Lo raccolsi per osservarlo meglio e, senza pensarci troppo, lo avvolsi in un fazzoletto e lo misi in tasca.
Tornata alla bottega, posai sul banco da lavoro l’agenda su cui appuntavo le misure e tirai fuori dalla giacca il fagottino. Presi un lembo di stoffa e lo tirai, liberando l’oggetto racchiuso nel tessuto. Ciò che vidi, però, non assomigliava per nulla ad un coltello: erano un paio di forbici, un paio di forbici per stoffa! Erano piuttosto lunghe, avevano una punta più arrotondata dell’altra, le lame luccicavano e l’impugnatura dorata sembrava formata da un intreccio di rampicanti. Strabuzzai gli occhi confusa e osservai per qualche secondo la luce delle candele riflettersi sul metallo lavorato, senza riuscire a distogliere lo sguardo dall’arnese: non era ciò che avevo raccolto in strada. Frugai freneticamente nelle tasche del mio cappotto alla ricerca del coltello, ma questo sembrava essere sparito. Cominciai a credere di essermi confusa poiché ero molto stanca e avevo bisogno di un po’ di riposo: era l’unica spiegazione plausibile. Mi tranquillizzai quanto bastò per riuscire ad adagiare le forbici sull’agenda e salire le scale per raggiungere la mia camera da letto e prepararmi per la notte.
Il giorno seguente, quando mi alzai, con gli occhi ancora socchiusi, scesi al piano inferiore e, non appena varcai la soglia della bottega, rimasi allibita: il mio tavolo era al centro della stanza, non più addossato al muro, e su di esso c’erano un rotolo di stoffa bluastra e un paio di fobici, anzi, le forbici che mi ero ritrovata in tasca la sera precedente. La mia agenda era poco distante, aperta sulla pagina raffigurante lo schizzo dell’abito per la signorina Dubois. Controllai la porta: il chiavistello era al suo posto, nessuno sarebbe potuto entrare, nemmeno con la chiave. Non ricordavo di aver mai cambiato la disposizione dei mobili del negozio e questo fatto mi pareva davvero stranissimo.
C’era un’atmosfera particolarmente calma ed io avevo un’insolita sensazione: avvertivo il bisogno di avvicinami a quel banco da lavoro misterioso e allora feci qualche passo nella sua direzione, ma non fu abbastanza. Il mio corpo voleva agire ed in quel momento io ero solo un ostacolo, così dovetti lasciarlo fare: afferrai le forbici dorate e cominciai a tagliare il tessuto, creando forme morbide e precise; dopo aver ottenuto, senza problemi e senza aver bisogno di consultare le misure, i componenti di un corpetto ed una gonna, li fissai con degli spilli. Senza esitare afferrai un ago e cominciai ad assemblare il vestito. Riuscii a fermarmi solo dopo aver terminato il lavoro. Ero stupefatta: l’abito era meraviglioso, un insieme di elementi amalgamati alla perfezione e, in particolare, la stoffa blu cobalto sembrava riflettere la debole luce che filtrava nella stanza, dividendola in mille sfaccettature colorate. Se prima era un normalissimo tessuto, ora somigliava ad un sorprendente intreccio di diamanti e sottilissimi fili blu. E se fossero state… no, non era possibile… e se fosse stata l’azione di quelle forbici a renderlo così? Pareva impossibile, ma poco di ciò che mi era capitato recentemente aveva una spiegazione logica. Probabilmente ero tutta pazza, ma decisi che dovevo sapere la verità, e c’era un solo modo per farlo. Cominciai a tagliare piccoli pezzi di ogni tipo di stoffa presente nella mia bottega e più andavo avanti, maggiore si faceva il mio stupore: il tessuto, una volta entrato in contatto con lo strumento, si tagliava facilmente e diventava molto piacevole da toccare, il suo colore si intensificava e si faceva più luminoso. Qualunque cosa creassi con quella stoffa, veniva perfetta. Forse, mi sarei dovuta spaventare da ciò che mi era appena capitato, un fatto così strano e lontano dalla realtà, invece ero entusiasta.
La signorina Dubois amò la mia opera. Era una donna piuttosto rinomata e le voci si sparsero in fretta, perciò dopo pochi giorni mi ritrovai piena di incarichi e richieste. Potevo comprare tessuti scadenti ad un prezzo bassissimo e ricavarne vestiti di altissima qualità. I miei clienti erano sempre più che soddisfatti e questo non faceva altro che accrescere la mia popolarità ed i miei guadagni. Non ero più costretta a incontrare macellai, panettieri o calzolai che necessitavano di qualche toppa o di semplici abiti scarni e che, per il fatto di conoscermi ed essermi amici, pretendevano sempre uno sconto. Cécile, la mia aiutante, cominciava a diventare un ostacolo, perché in sua presenza potevo solo cucire, non utilizzare le mie forbici, e, non essendomi necessaria, i soldi del suo stipendio erano un inutile spreco. Per non dover essere costretta a lavorare più lentamente di quanto in realtà non facessi, la licenziai: senza troppi giri di parole, le dissi che non avevo più bisogno di lei. Io e le mie forbici formavamo una squadra formidabile anche da sole.
Un rigido giorno d’inverno, mentre attraversavo la città bardata dalla testa ai piedi, una donna vestita di stracci mi si attaccò alla gonna chiedendomi qualche spicciolo. Colta alla sprovvista dalla sua impertinenza, afferrai la stoffa del mio abito e la strattonai, costringendola a staccarsi. Le lanciai uno sguardo indignato prima di proseguire per la mia strada. Eppure, mi riconobbi in lei: colsi il suo sguardo sconfitto e rassegnato e lo associai alla vecchia me, la povera ragazzina che possedeva solo un ago e un po’ di filo. La mia immagine, in quel momento, avrebbe potuto sovrapporsi a quella del signor Martin: stesso atteggiamento altezzoso, identico disprezzo per i meno fortunati.
“C’è chi sa gestire la ricchezza e chi no…”, ed io appresi di appartenere a quest’ultima categoria. Avevo realizzato le mie ambizioni, ma non lo avevo fatto sfruttando le mie capacità e mi ero trasformata in un genere di persona che odiavo: ricca e senza cuore. Se volevo tornare ad essere me stessa, c’era una sola cosa che potevo fare. Mi dissi che ormai ero fatta un nome e sarei stata in grado di svolgere il mio lavoro senza problemi; così, facendomi coraggio, estrassi le forbici (che ormai portavo sempre con me) dalla tasca e le lanciai nelle tenebre che stavano riempiendo la strada. Il signor Blanchet non vendeva una delle sue bottiglie di vino da settimane. Quella sera, passando per Rue Picot, notò un paio di splendide forbici dorate per terra e decise di portarle alla moglie. Una volta giunto a casa, però, al posto delle forbici, scoprì un meraviglioso cavatappi…

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